Boris, il petrolio e l’ansia ecologista

Regno Unito rincorreva la svolta verde ma la crisi ucraina ha sparigliato le carte
/ 21.03.2022
di Cristina Marconi

Come si affronta il cambiamento climatico? Ci si affida alle giovani generazioni, educandole a una sensibilità diversa in materia ambientale, o si punta tutto su una politica industriale radicale per azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050? Nel dubbio, il Regno Unito stava procedendo su entrambi i fronti con misure piuttosto decise quando la guerra in Ucraina e la necessità di trovare rapidamente una nuova fonte di energia per sostituire il gas russo ha sparigliato tutte le carte. E ha rimesso il premier Boris Johnson, tra le altre cose, davanti al rischio di riaprire quella crisi politica profondissima che stava per costargli il posto e che era riuscito ad aggirare nelle ultime settimane. Infatti dando il via libera alle esplorazioni di petrolio e di gas al largo delle coste britanniche per la prima volta da tre anni a questa parte si è ingraziato l’ala destra dei Tories, che a questo punto gli chiedono di fare un passo in più e di riaprire anche alle estrazioni di gas di scisto per accelerare l’emancipazione energetica dalla Russia. Col rischio, mai del tutto sopito, di spaccare il partito.

Ma Johnson, sposato con l’ambientalista Carrie, punta molto sulle sue credenziali verdi e certo non fa bene alla sua politica del net zero, ossia dell’azzeramento delle emissioni di gas serra da qui al 2050, il fatto di iniziare con una deroga e un ritorno alle trivellazioni. Per rendere credibile il suo obiettivo, che costerà 1.400 miliardi di sterline e sarà molto impegnativo per le aziende del paese, deve essere innanzi tutto deciso, anche perché deve vedersela con un’opposizione seria. Non solo c’è un gruppo che si chiama Zero net scrutiny group e che è formato da deputati conservatori decisi a chiedere una modifica dell’obiettivo zero net, ma nell’arena dell’anti-ambientalismo si è lanciato anche il più opportunista di tutti, ossia Nigel Farage. La nuova crociata dell’ex leader dell’Ukip (UK Independence Party), l’uomo che con la sua retorica insidiosa ha di fatto determinato l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, riguarda un referendum sulle misure vincolanti volute da Boris. Visto che nella sua lunga carriera politica non si è mai perso un’occasione di militare dal lato dell’irresponsabilità e del disdegno per il benessere collettivo, dopo aver ammiccato ai movimenti contro le misure anti-Covid negli ultimi anni, Farage ha lanciato un nuovo movimento, chiamato Britain means business, a difesa dello status quo e delle piccole imprese che non hanno nessuna intenzione di innovare.

«La classe politica di Westminster ha preso una decisione per conto di tutti noi senza che ci fosse mai un dibattito pubblico», ha scritto in un articolo sul «Mail on Sunday» Farage, che non è mai riuscito a farsi eleggere al Parlamento nazionale e deve la sua popolarità solo a una lunga carriera da eurodeputato. Ma la portata dell’argomento populista, in un momento in cui l’economia si sta a malapena riprendendo dalla lunga crisi del Covid e in cui la guerra fa paura anche se il paese importa solo il 5% della sua energia dalla Russia, è forte anche tra chi è più moderato.

Fatto sta che tutto questo avviene mentre in 15 scuole elementari del paese è stato inserito nel programma ufficiale anche lo studio di temi come il veganesimo e l’impatto della moda usa e getta sull’ambiente, sul modello di quanto avviene già in altri paesi come la Nuova Zelanda. L’iniziativa, che punta a raggiungere 10 mila istituti in tutto il paese, viene dal Ministero dell’istruzione ecologica, un’organizzazione di insegnanti e professori con una fortissima coscienza ambientalista, decisi a rivoluzionare programmi scolastici giudicati obsoleti rispetto a un fenomeno in rapida evoluzione. E a rispondere a domande come: «Cos’è davvero rinnovabile? La risposta è nella natura? Quanta roba è sufficiente? Le cose spariscono mai del tutto? Il clima è prossimo al collasso?». Questioni importanti, certo, che però vanno a gravare su una generazione di piccoli che già deve vedersela con l’esperienza diretta di una pandemia, con una guerra vicina e sentita, con gli eventi estremi di un cambiamento climatico abbondantemente manifesto, tra alluvioni e temperature estreme.

Equipaggiarli «sia nella vita professionale che in quella privata a mettere il pianeta al centro di tutto» è un bene, se la politica si ricorda di fare la sua parte, visto che i comportamenti personali, per quanto virtuosi, difficilmente possono compensare la mancanza di un approccio politico ambizioso e coerente. Certo, immaginare dei cittadini abituati a scrivere ai propri rappresentanti politici per protestare per gli sprechi nei supermercati, per le inefficienze nella raccolta differenziata o per la qualità dell’aria traccia un’immagine bella di un futuro in cui tutti si sentano responsabili dell’ambiente. E in cui i cittadini terranno in particolare considerazione i piani dei loro politici per migliorare l’ambiente. È ingiusto però che siano solo loro, i ragazzi, a soffrire della cosiddetta eco-anxiety, l’ansia ecologista.