L’esordio di Joe Biden gli ha portato subito 900mila nuove richieste d’indennità per disoccupazione, la conferma che sul mercato del lavoro americano la ripresa ha subito una pesante battuta d’arresto, legata sempre alla stessa causa: pandemia e lockdown. L’esordio arriva anche con un’avvertenza: siamo nei primi giorni di quella che un tempo si chiamava luna di miele. Mi riferisco ai bei tempi andati (un po’ troppo idealizzati) in cui un nuovo presidente godeva di un’apertura di credito, una fiducia da parte di una maggioranza di cittadini, perfino alcuni che non lo avevano votato. Le lune di miele non esistono più. Esattamente come 4 anni fa mezza America democratica e di sinistra cominciò a sparare su Trump da subito, oggi basta sintonizzarsi su «Fox News» per osservare che la destra ha già aperto le ostilità verso Biden.
Il clima di «guerra incivile» – tema centrale nel pacato discorso di Biden all’Inauguration day – contagia in modo simmetrico e speculare i media che simpatizzano per il 46esimo presidente degli Usa. Invece della luna di miele abbiamo la propaganda. La «Cnn» si distingue, pompando a dismisura annunci che vengono dalla Casa Bianca. Viene presentata come una svolta nella lotta alla pandemia il ritorno degli Usa nell’Organizzazione mondiale della sanità. In realtà è un gesto simbolico, in omaggio al multilateralismo, per segnalare il diverso spirito di cooperazione internazionale di Biden. Conseguenze pratiche: zero. L’Oms ha brillato per un’inefficienza spettacolare, oltre che per la grave collusione iniziale con la Cina. Se servisse a qualcosa, i Paesi che ne sono membri come l’Italia, il Belgio, il Regno Unito non avrebbero una mortalità da Covid ancora superiore agli Usa.
Idem per l’accusa della nuova Amministrazione rivolta a quella uscente, di non avere mai avuto un piano per le vaccinazioni. In passato Biden diede atto all’operazione Warp speed di Trump di aver contribuito alla rapida messa a punto dei vaccini. La loro inoculazione di massa è partita male, con troppi ritardi e intoppi, anche se funziona meglio che in Europa. I ritardi sono da ricondurre a molte responsabilità, comprese quelle di Stati come California e New York governati dai democratici. Tutti hanno contribuito all’impreparazione e tutti devono fare un salto di efficienza per raggiungere l’obiettivo di 100 milioni di vaccinati in 100 giorni.
Ogni giorno un tema, un messaggio, un annuncio: è la strategia della comunicazione della Casa Bianca nell’era di Biden. Si è cominciato con la pandemia, poi il «salvataggio dell’economia» e il piano Buy american, comprate americano, per difendere l’industria e i posti di lavoro nazionali, cioè la versione di sinistra del protezionismo di Trump. Domani domina il tema dell’equità, tutto ciò che la nuova Amministrazione ha in cantiere contro le diseguaglianze.
Il 27 sarà la lotta al cambiamento climatico. Il 28 si torna a parlare di sanità ma in modo più strutturale: come intervenire con riforme di lungo termine per completare quella che venne chiamata Obamacare. Il 29 è il turno dell’immigrazione. E ai primi di febbraio: «Ricostruire il ruolo dell’America nel mondo». Il calendario rivela un metodo di lavoro, conferma delle priorità. In parte l’ordine temporale è imposto dalla dura necessità, come la scelta dei decreti presidenziali firmati all’insediamento: il primo fra tutti gli ordini esecutivi era proprio quello che impone di portare la mascherina nelle aree sotto giurisdizione federale, come palazzi governativi o mezzi di trasporto che collegano i diversi Stati. Qui siamo nel regno del simbolismo: poiché Trump manifestava insofferenza verso le mascherine, il nuovo Governo vuole sottolineare il proprio «rispetto per la scienza», anche se per la verità l’obbligo delle mascherine viene già imposto nei fatti dalle compagnie aeree e dagli uffici pubblici. Sull’economia Biden può fare poco da solo, deve passare dal Congresso per il suo piano di aiuti da 1.900 miliardi di dollari.
La comunicazione serve a focalizzare tutto ciò che sta dentro quella manovra ed esercitare la massima pressione sui parlamentari per un iter veloce. Anche sull’immigrazione Biden deve per forza passare la palla al Congresso quando si tratta della grande riforma per regolarizzare in 8 anni 11 milioni di clandestini. Da solo lui può disfare solo ciò che Trump fece per decreto: la costruzione del Muro col Messico o il Muslim ban che vietava l’ingresso di cittadini da Paesi a maggioranza islamica. I decreti iniziali sono un omaggio alla base militante del partito democratico, agli ambientalisti, alle minoranze etniche. Era tutto previsto, dal rientro negli accordi di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico alla cancellazione dell’oleodotto Keystone, dall’abrogazione di alcune direttive anti-immigrati alla proroga degli sfratti. Il messaggio è: stiamo ribaltando alla velocità della luce gli atti più odiosi di Trump.
Le cose più sostanziali devono ancora venire e quasi tutte dipendono dall’intesa con il Congresso. Una delle prime nomine a incappare nelle resistenze dei repubblicani è il candidato ispanico di Biden al vertice della Homeland security, il superministero che gestisce polizie, ordine pubblico, anti-terrorismo e controlli alle frontiere. Su questo fronte Biden ha già fatto capire che non vuole andare molto oltre i gesti simbolici, come lo stop alla costruzione del Muro col Messico. Di «aprire le frontiere» non se ne parla. Biden ha bloccato perfino la limitata riapertura ai viaggiatori europei che Trump voleva introdurre nelle ultime ore del suo governo. Il Covid è la ragione ufficiale ma servirà anche per mantenere sigillato il confine col Messico. L’ultima cosa di cui Biden ha bisogno in questa fase è ritrovarsi in un’emergenza profughi. Accadde a Obama quando Joe era il suo vice e non andò bene: fu allora che vennero introdotte le «gabbie» nei centri di detenzione, poi attribuite a Trump. Sarebbe ancora più calamitoso se dovesse accadere in mezzo a pandemia e crisi economica.
«America is back». L’America è tornata in mezzo a voi: questo è il messaggio che Biden ha voluto trasmettere ai leader europei. Le nomine che ha fatto sono rassicuranti per l’Europa: uomini di collaudata esperienza in politica estera, tutti con solidi curriculum da establishment atlantista. Lo stesso Biden vanta un record personale significativo, è l’esponente americano con la più antica appartenenza alla Munich security conference, consesso di alto livello dove gli alleati si consultano. La sua squadra spicca per l’omogeneità a una visione occidentale del mondo che Trump ha ignorato per 4 anni: il futuro segretario di Stato Anthony Blinken, il National security adviser Jake Sullivan, il capo-designato della Cia William Burns, sono dei veterani dei rapporti con i Governi europei. Però è lo stesso Blinken ad avvisare che «non si torna indietro». Non solo perché Trump ha creato dei fatti compiuti, che non si smontano in un attimo: per esempio i dazi su 370 miliardi d’importazioni dalla Cina o l’uscita dall’accordo nucleare con l’Iran, due dossier che hanno grande rilevanza per l’Europa e sui quali Biden non ha l’intenzione di tornare immediatamente alla situazione di 4 anni fa.
Ancora più importante è la revisione strategica compiuta da Biden, i suoi collaboratori e i think tank che li consigliano per tenere conto delle cause strutturali del trumpismo. Sullivan è molto esplicito sul fatto che la politica estera Usa e la strategia commerciale saranno guidate dalla priorità di «ricostruire le classi lavoratrici». La nomina del «falco» Kurt Campbell come super-coordinatore delle politiche verso l’Asia conferma un’analisi molto più negativa sulla minaccia cinese rispetto alle Amministrazioni Obama-Biden.
Non mancheranno altri gesti amichevoli verso gli europei. Dopo il rientro negli accordi di Parigi, Biden potrebbe eliminare certi dazi che avevano colpito prodotti europei. Ci sarà un rilancio del ruolo della Nato e forse non avverrà il taglio di truppe di stanza in Germania che Trump aveva ordinato.
La manifestazione simbolica più potente di questa nuova luna di miele tra i vecchi coniugi America ed Europa, sarà il supervertice delle democrazie annunciato da Biden. Il presidente eletto vuole «rinnovare il comune sentire e l’unità di obiettivi tra le Nazioni del mondo libero». È ispirato ad un summit che Obama organizzò nel 2012 per la limitazione delle armi nucleari, solo che al vertice del «mondo libero» non saranno invitati Xi Jinping e Vladimir Putin né altri autocrati. Ma l’iniziativa di Biden ha perso un po’ del suo fascino strada facendo, per ragioni che gettano un’ombra sul rilancio dell’Occidente. La Covid costringerà a trasformare il summit in un evento in remoto, virtuale, depotenziandolo.
La stessa pandemia ha rafforzato la Cina e l’assalto al Congresso di Washington il 6 gennaio ha inflitto un colpo al prestigio della democrazia Usa. In Europa l’elettorato ha un’opinione dell’America che è appena di poco migliore rispetto a Cina e Russia. Gli americani ereditano dal Governo Obama-Biden un «pivot to Asia» che è la presa d’atto della realtà: il centro del mondo è nel Pacifico. Il vero test delle nuove relazioni con l’Europa sarà proprio la Cina. Biden vuole costruire una grande coalizione per rafforzare il potere contrattuale dell’Occidente ed estrarre concessioni da Xi su molti terreni: dal commercio alle tecnologie ai diritti umani. Ma Xi lo ha battuto in velocità attirando gli europei in un accordo Cina-Ue sugli investimenti, alla vigilia di Natale.
Biden strizza l’occhio all'Europa
Nessuna luna di miele per il neopresidente confrontato con pandemia e crisi economica. Sul fronte estero l’obiettivo è creare una coalizione occidentale che eserciti pressing sulla Cina
/ 25.01.2021
di Federico Rampini
di Federico Rampini