Biden, la Cina e il golpe

Il ruolo cruciale dell’economia nella nuova fase di confronto tra Usa e il Gigante asiatico. L’importanza strategica della Birmania ora in mano ai militari
/ 08.02.2021
di Federico Rampini

«America is back», l’America è di ritorno. Subito dopo: «Diplomacy is back», torniamo a fare diplomazia. Sono le due frasi con cui Joe Biden ha voluto aprire il suo primo discorso programmatico di politica estera, dopo una visita al Dipartimento di Stato il 4 febbraio. Il ritorno alla tradizione nei modi e nel linguaggio, non significa però guardare al passato. «Vogliamo riparare le nostre alleanze – ha detto Biden – non per reagire alle sfide di ieri ma a quelle di domani». Ha indicato subito quali siano le due sfide principali: «Rispondere alle ambizioni crescenti della Cina. Reagire alle offensive con cui la Russia ha cercato di sabotare la nostra democrazia». Per Biden il richiamo alla tradizione liberale e umanitaria non è buonismo: «Una diplomazia che affonda le radici nei nostri valori, che difende la libertà, è la nostra forza, è ciò che ci ha sempre messi in vantaggio sugli avversari». Non abbassa la guardia verso Xi Jinping: «Affronteremo la Cina per i suoi abusi economici. Se rispettasse le regole del gioco, non avrebbero sofferto tanto la competitività dei lavoratori e delle imprese americane».

C’è anche il tema dei diritti umani sul quale questa Amministrazione usa un linguaggio uguale a quello di Mike Pompeo. Il nuovo segretario di Stato Antony Blinken ha ripreso la stessa definizione di «genocidio» per il trattamento inflitto agli uiguri musulmani dello Xinjiang. Ma apre alla cooperazione «se i cinesi vogliono lavorare insieme a noi». Biden indica subito un terreno possibile d’intesa nella lotta al cambiamento climatico: «Siamo rientrati negli accordi di Parigi dal giorno del mio insediamento, ospiterò un summit mondiale sulla crisi climatica nell’Earth day».

Ma l’economia avrà un peso determinante nella nuova fase di confronto tra le due superpotenze. L’ultima previsione del Fondo monetario internazionale conferma una ripresa globale a tre velocità. Nel 2021 la Cina continuerà a guidare la classifica (si prevede che chiuderà l’anno con una crescita del Pil dell’8%), trascinando con sé la volata di altri Paesi asiatici. L’America insegue e sembra in accelerazione (+5% il Pil a fine anno). Il terzo polo è l’Europa, decisamente l’ultima e la più lenta a recuperare. La Cina toglie un altro primato agli Stati uniti: il ruolo di principale meta degli investimenti esteri diretti. Questo sorpasso è accaduto nel 2020, anno-chiave per l’accelerazione di tutte le dinamiche preesistenti in favore della Cina. Gli Usa, che per molti decenni erano stati la destinazione numero uno per gli investimenti delle imprese da tutto il mondo, li hanno visto crollare del 49% nel 2020, mentre gli investimenti diretti in Cina sono aumentati del 4%. Sono dati dell’Unctad, agenzia economica delle Nazioni unite. La punta massima degli investimenti diretti negli Stati uniti fu raggiunta nel 2016 a quota 472 miliardi di dollari. In quell’anno gli investimenti diretti in Cina erano poco più di un quarto, 134 miliardi.

L’Asia guida anche il rimbalzo del commercio internazionale. Il boom di esportazioni dalla Cina verso gli Stati uniti continua a creare strozzature logistiche nel trasporto navale e a rincarare i suoi costi. Già a dicembre il traffico cargo era cresciuto del 23% rispetto allo stesso mese del 2019. Certi noli sono rincarati dell’80% da novembre a oggi e sono triplicati rispetto a un anno fa. A dispetto di tutte le previsioni su una «retromarcia della globalizzazione» (scenari fondati sia sulla guerra fredda Usa-Cina, sia sulle conseguenze della pandemia), la ripresa dell’economia cinese è in larga parte trainata dalle esportazioni.

Per adesso, non solo la Cina è la vincitrice della prima fase della pandemia, ma lo è conservando il suo modello di sviluppo precedente, basato sul traino della domanda altrui. In parte questo è legato al fatto che la Cina ha rimesso in moto la sua macchina produttiva in tempi record già alla fine della primavera scorsa; in parte è la conferma che sostituire la produzione cinese, anche per chi voglia farlo, non è una cosa semplice né istantanea.

La ripresa cinese trainata dalle esportazioni pone una delle prime sfide internazionali a Biden. Pechino non sta ai patti, non mantiene le promesse per riequilibrare il suo immenso attivo commerciale con gli Usa. Si tratta di patti che erano stati siglati con l’Amministrazione Trump, un anno fa, quando venne raggiunto l’accordo della cosiddetta Fase uno. Una tregua più che una vera pace. Ma la Cina non ha fatto quello che promise. Doveva aumentare i suoi acquisti di prodotti americani per 200 miliardi di dollari. L’ultima stima fatta dal Peterson institute for international economics rivela che la Cina ha importato solo il 64% delle derrate agricole Usa che aveva promesso di comprare, il 60% dei prodotti industriali e il 39% dell’energia. Perciò sui dazi imposti da Trump su 360 miliardi di importazioni made in China, Biden prende tempo: non ha fretta di toglierli.

Fra i terreni su cui invece lui è deciso a contrastare l’avanzata cinese – oltre alla guerra tecnologica, al 5G, allo spionaggio industriale, agli attacchi di hacker – c’è l’esportazione del modello autoritario fuori dal perimetro della Grande muraglia. Biden cita la prima crisi internazionale che ha dovuto affrontare, il colpo di Stato militare in Birmania. Conferma il suo metodo: «Lavoriamo con i nostri partner, per restaurare le democrazie». La divergenza con Xi è già netta su questa crisi «periferica», perché al Consiglio di sicurezza dell’ONU è stata proprio la Cina a bloccare una risoluzione di condanna del golpe. Il colpo di Stato in Birmania o Myanmar è una prova molto seria. Vacilla un Paese che l’Amministrazione Obama-Biden era riuscita a sottrarre alla sfera d’influenza cinese.

Avanza un altro autoritarismo, in un mondo segnato dalla «recessione delle democrazie». Finisce agli arresti una leader che Obama e Biden, Hillary Clinton e John Kerry avevano appoggiato pur tra le riserve di tanti occidentali, la Lady birmana Aung San Suu Kyi. E per quanto la Birmania sia il più povero tra i Paesi del sud-est asiatico, la sua importanza strategica è chiara a Washington: ha petrolio, diamanti, legname e altre risorse naturali. È al confine tra una democrazia amica dell’America (l’India) e la Cina. È attraversata da progetti della Belt and road initiative con cui Xi Jinping promuove il suo espansionismo economico e geopolitico.