La scelta della Svizzera – tradizionale territorio neutrale per gli appuntamenti tra avversari – come sede del vertice tra Joe Biden e Vladimir Putin spiega forse meglio di qualunque indiscrezione e dichiarazione il formato dell’incontro del 16 giugno. La guerra fredda tra Usa e Russia rende impensabile una visita di Stato o di lavoro nel Paese del proprio interlocutore. Biden ha definito Putin un «killer». Mosca ha appena stilato una lista di «Stati ostili» dove per ora l’unica Nazione, oltre agli Usa, è la Repubblica Ceca. Un vertice a margine di un evento multilaterale come un G20 è altrettanto sconsigliato, non solo perché la pandemia ha rese più rare queste possibilità. Per Washington è importante sottolineare che Mosca non è un partner e Putin non è un frequentatore del «salotto buono» internazionale. Quindi si torna al grande classico della diplomazia internazionale, come i negoziati ginevrini tra sovietici e americani dei tempi di Leonid Brezhnev: più che un vertice destinato ad avvicinare due nemici, è un’occasione per posizionare dei paletti, tracciare linee rosse e accordarsi su come non farsi troppo male a vicenda.
Dal canto suo il Cremlino non sembra sperare in nulla, a differenza delle grandi attese che aveva nutrito per il primo vertice con Donald Trump. Forse è stata quella delusione, o forse la logica dell’involuzione autoritaria, ma oggi Putin non sembra cercare più un ritorno nella politica internazionale. È rassegnato all’isolamento ostile di una Russia che racconta ai suoi sudditi di essere circondata da nemici che «vogliono staccarci dei pezzi a morsi». Il desiderio di venire riconosciuti come dei pari – e quindi anche il tentativo di aderire, almeno formalmente, agli standard occidentali della politica – appare accantonato. E la rapidità con la quale la Russia negli ultimi mesi, sull’onda della repressione scatenata contro Alexey Navalny e chi lo sostiene, da autoritarismo si sia trasformata in una dittatura poliziesca è spaventosa.
Solo l’ultimo mese è stato segnato dall’arresto di diversi oppositori di spicco, che avevano manifestato l’intenzione di candidarsi alla Duma (Camera bassa del Parlamento) a settembre, e l’approvazione della legge che bandisce dalle elezioni chiunque abbia partecipato – anche con una donazione o un post sui social – a una «organizzazione estremista», segna la fine perfino dell’imitazione di una democrazia. Fare opposizione è ormai l’equivalente di un crimine e la politologa Tatiana Stanovaya di Carnegie Russia prevede la chiusura di qualsiasi spazio di dissenso in «un’operazione di pulizia totale e cieca del regime». Il politico Dmitry Gudkov, arrestato con accuse di frode su un contratto, rilasciato e fuggito a Kiev, ha dichiarato che «la politica fisica in Russia è ormai impraticabile». Il Governo russo sta preparando anche un’ennesima serie di leggi per la censura dei media e di Internet.
È evidente che i diritti umani e le libertà politiche saranno uno dei dossier più scomodi per Putin a Ginevra, anche perché a giugno dovrebbero scattare nuove sanzioni internazionali, ma non sembra questo l’ambito dov’è pronto a fare concessioni. Più probabile qualche intesa nel campo del controllo degli armamenti e del disarmo nucleare, mentre su altri grandi dossier come la guerra cibernetica, le ingerenze russe nelle elezioni americane e il gasdotto North Stream 2 è difficile immaginarsi un dialogo che vada oltre un rituale scambio di accuse.
Ma se l’obiettivo di Mosca potrebbe apparire a questo punto non tanto rilanciare un’offensiva internazionale, quanto conservare un precario equilibrio per potersi dedicare alla conservazione del potere in condizioni di instabilità interna, dovrà rispondere anche delle sue responsabilità verso due Paesi limitrofi. La crisi della Bielorussia, nel mirino della comunità internazionale dopo il dirottamento del Boeing della Ryanair con a bordo il giornalista d’opposizione Roman Protasevich, ha aumentato l’influenza del Cremlino su un Aleksandr Lukashenko ormai definitivamente considerato un autocrate pericoloso e inaffidabile. Nello stesso tempo però Putin si trova a dover rispondere non solo per i suoi metodi brutali, ma anche per quelli del vicino bielorusso. Se si distanzia rischia di mettersi contro le componenti più aggressive e nazionaliste del proprio entourage, se offre a Lukashenko il suo aiuto potrebbe trovarsi a pagare un prezzo ancora più elevato sia in termini di relazioni internazionali, sia di costi economici. Le sanzioni in arrivo per la Bielorussia le toglieranno praticamente ogni risorsa che non sia la Russia.
La Bielorussia rischia di venire isolata non solo dall’Europa ma anche dall’Ucraina, il cui presidente Volodymyr Zelensky alla vigilia del vertice di Ginevra ha chiesto l’ammissione del suo Paese nella Nato, allo scopo di proteggerlo dall’aggressione russa. Un risultato difficilmente possibile nell’immediato, visto che trasformerebbe la guerra tra l’Ucraina e la Russia in una guerra tra Russia e Nato. Ma Zelensky ha parlato con Biden al telefono due volte in poche settimane, a luglio visiterà la Casa bianca e l’Amministrazione americana gli ha promesso aiuti militari e tutela nella vicenda del North Stream 2, il gasdotto verso la Germania che la Russia ha voluto per non far più transitare dall’Ucraina il suo gas diretto in l’Europa. Una decisa svolta rispetto a Trump, tentato di riconoscere l’annessione russa della Crimea durante la sua presidenza. È quasi certo che Biden esigerà da Putin garanzie sulla volontà di non attaccare l’Ucraina e di non assistere la Bielorussia. Il problema è cosa potrà offrire (o minacciare) in cambio.
Biden e Putin: il confronto
A Ginevra tanta carne al fuoco ma poche speranze di riconciliazione
/ 14.06.2021
di Anna Zafesova
di Anna Zafesova