Bersani-Salvini, identici destini

Eterni secondi – Entrambi non potranno mai convivere nello stesso governo
/ 26.02.2018
di Alfio Caruso

Bersani è il tipo che dopo aver vinto la lotteria ha smarrito il biglietto. Salvini è il tipo che annuncia di aver vinto la lotteria e quando tutto il mondo gli crede, ecco spuntar fuori il vero possessore del biglietto vincente. Fra l’autunno 2011 e la primavera 2013 Bersani segretario del Pd sembrava il predestinato per eccellenza, il futuro dominatore degli anni a venire. Così sicuro di trionfare da non pretendere, alle dimissioni di Berlusconi, le elezioni immediate e accettare, invece, la proposta di Napolitano, presidente della Repubblica, di concludere la legislatura con un governo tecnico. Lo guidò Monti, ma fu lui a pagarne le colpe e i troppi sacrifici.

Nelle elezioni del 2013 il Pd si salvò alla Camera per una manciata di voti e non ottenne la maggioranza al Senato, stretto fra il miracoloso recupero di Berlusconi e la straripante affermazione di Grillo e del M5S. Pur di raccattare una maggioranza qualsiasi, Bersani si sottopose al vergognoso ludibrio della trattativa in streaming con la delegazione pentastellata. Così tanti italiani poterono scoprire che per un politico potevano non esserci limiti nel prostrarsi e che i presunti profeti del cambiamento volevano soltanto scambiarsi di posto con i predecessori. Da quel giorno Bersani se l’è presa con il mondo, anziché prendersela con se stesso. Dietro l’atteggiamento tollerante-paternalistico, dietro l’accattivante accento emiliano, dietro il presunto interesse della Nazione, è emersa l’incapacità di leggere e capire la cronaca, figuriamoci la storia.

Cambiando i connotati, i programmi, i quadri di quella che un tempo era stata la Lega Nord, Salvini ha lanciato l’assalto al cielo, cioè alla presidenza del consiglio. Intima, sancisce, minaccia in nome di un ruolo che non avrà, per gli eccessi ai quali si è dato nella speranza di sfruttare le tante paure degli elettori. Troppo impegnato a evitare una qualsiasi occupazione che non fosse la politica, Salvini non ha avuto il tempo di leggere la famosa risposta di Einstein a chi gli chiedeva di specificare la sua razza: «Appartengo all’unica razza che conosco, quella umana».

Di conseguenza nella sua lunga carriera, che coincide con la sua ancor giovane esistenza, Salvini ha avuto la possibilità di prendersela con i napoletani, con gli immigrati, con i rom, con gli islamici, nelle cui moschee andava a chiedere i voti per diventare consigliere comunale a Milano. La sua riconosciuta abilità consiste nel solleticare il peggio degli italiani ignorando, dall’alto dei tanti libri non letti, in quali abissi noi siamo capaci di sprofondare. Quando poi percepisce di averla sparata grossa apre il faccione nel sorriso da bravo ragazzo e si prepara alla prossima. Come ha fatto recentemente a Napoli: ha chiesto scusa in ginocchio per aver cantato al raduno di Pontida nel 2009: «Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani».

In queste elezioni Bersani, al pari di D’Alema, ha un solo scopo: far perdere Renzi, il castigatore di entrambi. Ha guidato la scissione, creato un partitino del 5 per cento, raccolto tutti i vecchietti insoddisfatti e disponibili non per salvare l’antica tradizione comunista o per battere lo strombazzato pericolo riemergente da destra. Nossignori, l’unico arcinemico da sconfiggere è il social fascista Renzi, come avrebbe detto quello Stalin, i cui metodi sono così difficili da cancellare. Ai suoi occhi è diventato persino peggio di Craxi e dello stesso Berlusconi, che un giorno sì e l’altro pure viene indicato come l’esecrando futuro alleato del medesimo Renzi, dimenticando che con Berlusconi lui, Bersani, ha governato per quattordici mesi. Malgrado la lunga militanza, a Bersani è mancata l’intelligenza di prevedere che Renzi si sarebbe impiccato da solo alle sue eccessive sbruffonerie. Travolto dal rancore, ha preferito inseguire un dispetto immediato e viscerale, anziché aspettare di esser richiamato per salvare il salvabile. Una vita trascorsa a studiare da numero uno per poi comportarsi da eterno secondo.

Più o meno l’identico destino di Salvini. Nel suo mare di contraddizioni – dall’euro alla permanenza in Europa, dall’occhiolino all’estremismo nero ai vaccini – ha avuto un’unica, paradossale stella polare: trasformare il più incredibile bugiardo degli ultimi venticinque anni nella polizza assicurativa di parecchi italiani amanti del quieto vivere. Eppure tutto lo divide da Berlusconi, tranne l’amicizia per Putin, venata in ambo i casi, secondo le malelingue, da concreti interessi: il gas per uno, i finanziamenti per l’altro. Però, senza le esagerazioni verbali di Salvini, l’ottantaduenne Berlusconi non avrebbe cavalcato l’onda del consenso. È riuscito così a coagulare un considerevole numero di moderati spaventati dal diverso, ma anche da chi per combatterlo invoca i posti a sedere soltanto per i milanesi nei vagoni della metro; da chi per difendere piccole imprese e lavoratori promette i dazi non avendo imparato nei molti anni da parlamentare europeo che i dazi non possono più essere applicati dai singoli Paesi, bensì dall’Europa; da chi non ce l’ha con Bossi per i milioni che si è fregati, ma per l’attrazione che può ancora esercitare su talune fasce di militanti.

Nel caos annunciato del nuovo Parlamento dalle maggioranze quasi impossibili, una delle poche certezze riguarda l’impossibilità di Bersani e di Salvini di convivere nello stesso governo. Non deriva tanto dai giuramenti dei due di essere disponibili soltanto a scelte coerenti, quanto dai sussulti finali del loro ego.