La Germania grande malata d’Europa? Chiederselo è oggi legittimo. Del fatto che sia grande, e non solo per la dimensione economica, non c’è dubbio. Almeno se ne consideriamo l’influenza nel sistema europeo, di cui dopo l’unificazione è il fattore ultimo e decisivo di mediazione. Funzione incarnata fisicamente da Angela Merkel, regina del traccheggio scientifico. In pensione, se davvero ci andrà, forse si deciderà a scrivere un manuale su come si finge di risolvere un problema rinviandolo. Il titolo c’è già: «Merkeln». Neologismo ormai accettato dai media tedeschi quale sinonimo di rinviare, traducibile nell’inglese/americano «kicking the can down the road».
Quanto alla malattia, se ne vedono ormai i sintomi, tenuti sotto controllo grazie al «merkeln» della cancelliera. In sostanza, l’attuale Bundesrepublik è ancora troppo simile alla sua versione originaria. In termini geopolitici, significa restare sotto tutela americana, sia pure in postura sempre più refrattaria, ed escludere l’uso della forza, quindi delle Forze armate. In termini geoeconomici vuol dire esibire un approccio egotistico al Continente europeo e in specie all’Eurozona, per la quale Berlino potrebbe puntare l’anno prossimo al ripristino dell’interpretazione ortodossa del patto di stabilità e crescita. La cultura ordoliberalista, declinata in austerità, significa assorbire liquidità e diffondere deflazione. Il contrario di quanto fa di norma un egemone.
In termini socio-culturali, i tedeschi continuano a inclinare verso il «weiter so» (avanti così). Il fascino della Grande Svizzera resiste, anche se non così assoluto come un tempo. Nella dinamica attuale, mentre tutte le regole scritte e non scritte sono rimesse in discussione o semplicemente travolte, questi schemi antichi non funzionano. Soprattutto scricchiolano due pilastri del sistema tedesco. Quello politico-partitico e quello dell’unità nazionale (ammesso e non concesso che la Germania sia una Nazione e non una collezione di tribù). Le ultime elezioni sono state il definitivo funerale del sistema partitico classico, imperniato su due grandi partiti di massa, l’uno di centro-destra (Cdu più Csu, scapigliata sorella bavarese) l’altro di centro-sinistra (Spd), con i liberali della Fdp a disposizione per formare coalizioni sufficientemente coerenti. Spd e Cdu-Csu sono ormai intorno al quarto dell’elettorato ciascuno, con la coppia cristiana in fase di totale confusione, incarnata dal ridente e ridicolo Armin Laschet, il candidato cancelliere più improbabile che il partito di Adenauer abbia mai esibito. Il rischio di una scissione nella Cdu è concreto.
Dei tre «nuovi» partiti, il più rilevante è quello dei Verdi, di cui non si capisce bene che cosa farebbe al governo, viste le sue diverse anime e la tendenza a parlare di tutto fuorché di politica concreta. Non pertengono a tale categoria la retorica del clima o il dibattito sul numero dei sessi (generi) e sui rispettivi confini. Gli altri due partiti, l’Alternative für Deutschland (oltre il 10%) e la Linke (sotto la fatidica soglia di sbarramento, 5%, ammessa al Bundestag grazie ai mandati diretti) sono per ora inabilitati a entrare in qualsiasi coalizione federale e restano fondamentalmente incardinati nell’ex Ddr. Insomma, il 15% dei voti espressi è esterno al sistema. Non una notizia confortante per la stabilità del Paese.
Questo ci riporta alla faglia est-ovest, «Ossis contro Wessis». Una linea di divisione culturale prima che socio-economica, radicata nella storia e quindi probabilmente durevole. Accentuata dall’improvvisazione che ha segnato negli anni Novanta del Novecento la «riunificazione» tedesca, del tutto imprevista sull’una e sull’altra sponda germanica. Ne è conseguito un approccio para-coloniale da parte della Bundesrepublik, che ha ingenerato un senso di deprivazione relativa negli ex cittadini della Germania comunista. Lo si nota, ad esempio, nel successo di due partiti estremi – Linke e AfD – che hanno molto in comune a dispetto dell’opposizione ideologica con cui decorano le rispettive facciate. Questa Germania è chiamata l’anno prossimo a scelte decisive. La più importante riguarda la politica fiscale, rivoluzionata dalla crisi del virus. Vorrà Berlino restare sulla attuale linea di espansione fiscale (e monetaria), oppure cercherà di riaccostarsi al sistema vigente fino al 2019, che i suoi critici chiamano austerità?
Nel secondo caso la crisi nei rapporti con Francia e Italia, che stanno per stringere un trattato bilaterale di cooperazione – fatto inedito – è scontata. E minaccia di devastare quel che resta degli equilibri europei. Specie se i liberali saranno al Governo, forse con al Ministero delle finanze il loro leader Christian Lindner, noto «falco», non disposto a compromettersi con le «cicale» mediterranee. L’incrocio fra centralità sistemica nell’Eurozona, frammentazione interna e immaturità socio-culturale non promette bene. Al prossimo Governo il compito di avviare il riorientamento complessivo del Paese. Con i migliori auguri, che poi sono auguri per tutti noi altri europei.
Berlino, grande malata d’Europa
I risultati del voto per il rinnovo del Bundestag mettono in evidenza le debolezze del sistema tedesco. Si palesa la sconfitta dei partiti di massa, riemergono le divisioni culturali e socio-economiche che segnano il Paese
/ 04.10.2021
di Lucio Caracciolo
di Lucio Caracciolo