Carmen Lamela, un’anonima giudice di Madrid, si è guadagnata un posto nella storia della giovane democrazia spagnola. La decisione della magistrata dell’Audiencia Nacional di far arrestare otto ex ministri catalani e di spiccare un mandato di arresto europeo contro l’ex presidente della Generalitat Carles Puigdemont ha inferto un colpo forse letale ai già difficili rapporti tra Barcellona e Madrid. Le accuse contro i membri dell’ex governo catalano sono di ribellione, sedizione e malversazione. Questo provvedimento giudiziario senza precedenti in Spagna condizionerà enormemente lo svolgimento delle elezioni del Parlamento catalano previste per il prossimo 21 dicembre.
Si tratta di un atto ritenuto di particolare importanza perché queste misure colpiscono proprio quei politici che sarebbero stati protagonisti della campagna elettorale che sta per cominciare. In particolare, l’arresto di Oriol Junqueras, ex vicepresidente della Generalitat e leader di Esquerra Republicana (il partito di maggioranza relativa in Catalogna, dato attorno al 27 per cento nei sondaggi), toglie di mezzo uno degli storici promotori dell’indipendentismo.
La decisione della giudice Lamela esacerba gli animi e rischia di creare grattacapi anche al primo ministro Mariano Rajoy sia a livello nazionale che internazionale. Il premier era stato abile a stroncare sul nascere l’autoproclamata Repubblica catalana, commissariando la regione di Barcellona e placando le tensioni con la convocazione di elezioni anticipate. L’inaspettata giocata di Rajoy aveva messo in difficoltà i partiti indipendentisti e i loro leader, che stavano cercando di prendere tempo per ridefinire una strategia nella nuova situazione politica che si era creata. Secondo molti analisti, Puigdemont aveva infatti commesso un errore nel non assumersi la responsabilità di convocare le elezioni e nel sottrarsi alla giustizia spagnola.
Il suo comportamento aveva generato anche sconcerto e frustrazione nelle file indipendentiste, che avevano assistito a un balletto di dichiarazioni e movimenti ondivaghi fatti da Puigdemont. Dapprima il 26 ottobre l’ex Presidente si era detto pronto a sciogliere il Parlamento catalano fino a quando le grida di «traditore» di una parte dei suoi elettori e il veto dei suoi soci di coalizione di ERC gli hanno fatto cambiare idea. In seguito il giorno successivo è ritornato sui suoi passi, rendendo possibile l’approvazione della risoluzione del Parlament che ha dato il via alla nascita della «Repubblica catalana», poi immediatamente invalidata dall’approvazione dell’articolo 155 da parte del Senato centrale di Madrid e dichiarata nulla da una sentenza della Corte costituzionale spagnola.
Nei giorni successivi Puigdemont è sparito lasciando increduli i suoi simpatizzanti. L’ex capo dell’esecutivo catalano è riapparso in pubblico martedì scorso a Bruxelles, dove ha cercato di rilanciare la questione catalana sul piano internazionale. Finora il tentativo di separarsi da Madrid è stato un chiaro fallimento (la Catalogna non è stata riconosciuta da nessuno Stato) e ha messo in evidenza anche l’impreparazione degli indipendentisti per una missione che andava oltre le proprie capacità. Nella capitale dell’Ue Puigdemont ha ricevuto la notizia della convocazione a comparire davanti al tribunale dell’Audiencia Nacional di Madrid, per un reato che prevede fino a 30 anni di carcere.
Tuttavia Carles Puigdemont, a differenza dei suoi ex colleghi di governo, non si è presentato davanti ai giudici spagnoli giovedì scorso, preferendo rimanere all’estero in compagnia di altri quattro ex ministri catalani. In un comunicato ha dichiarato di rappresentare il «legittimo governo della Catalogna» e ha denunciato a suo dire l’accanimento giudiziario fatto dalla magistratura nei suoi confronti, che accusa di volergli fare un «processo politico» e di trattarlo alla stessa stregua di un terrorista. Dal punto di vista strettamente politico Puigdemont ha però voluto raccogliere il guanto di sfida gettato da Rajoy, accettando il verdetto democratico.
E proprio questa contesa elettorale potrebbe essere l’unico punto di svolta di una crisi quasi irreversibile. Quasi tutti i partiti catalani (forse con l’unica eccezione della sinistra anticapitalista della CUP) stanno in effetti già prendendo atto della nuova situazione creatasi in breve tempo e si stanno preparando per la campagna elettorale. Nelle file indipendentiste sia il partito borghese di Puigdemont (PDeCAT) che la sinistra repubblicana di ERC hanno dichiarato che prenderanno parte alle elezioni. Risulta un po’ contraddittorio che, dopo aver proclamato la Repubblica catalana, questi due partiti si presentino a delle elezioni imposte dal «nemico» Rajoy. Sia ERC che il PDeCAT si sono giustificati affermando che il voto sarebbe «un’opportunità in più per consolidare la repubblica».
Sull’altro fronte si schiereranno i partiti «costituzionalisti» del Partito popolare di Rajoy, i liberali di Ciudadanos e il Partito socialista catalano (PSC). Anche Podemos, nella sua versione catalana di «En Comun Podem», parteciperà alle elezioni. Questo partito è l’unico che non si è schierato né per l’indipendenza, né per il mantenimento della status quo, ma per la celebrazione di un referendum legale circa il diritto a decidere della Catalogna. Decisivi ai fini del risultato elettorale sarà sapere se si formeranno delle coalizioni e quali candidati saranno i leader dei rispettivi partiti. La figura emergente era quella dell’ex conseller catalano della cultura Santi Vila fino al suo arresto di giovedì scorso. Vila, l’unico tra gli ex ministri arrestati che ha ricevuto la libertà condizionata al pagamento di una cauzione, è visto come leader di una coalizione indipendentista moderata o addirittura come fondatore di un nuovo partito. Lo stesso Vila si era dimesso da ministro un giorno prima dell’autoproclamazione della Repubblica catalana e potrebbe essere l’ago della bilancia se si presentasse in solitario.
Come si è visto negli ultimi giorni, l’aspetto giudiziario condizionerà enormemente lo svolgimento della campagna elettorale. In Catalogna giovedì scorso sono scese in piazze migliaia di persone per manifestare contro la detenzione dell’intero ex esecutivo catalano e una grande manifestazione è già stata convocata per domenica 12 novembre. Nella società catalana si va sempre più diffondendo la convinzione che queste detenzioni rispondano a una volontà politica e non a una magistratura indipendente. Puigdemont, Junqueras e gli altri ex ministri della Generalitat sono solo gli ultimi di una lista di persone che vengono considerate come «prigionieri politici». Dal 16 ottobre sono in carcere anche Jordi Sánchez e Jordi Cuixart. La magistratura li accusa di avere ostacolato il lavoro della Guardia Civil spagnola, quando gli agenti delle forze dell’ordine entrarono negli uffici della Generalitat per cercare prove per impedire lo svolgimento del referendum del 1. ottobre. Questo tipo di carcere preventivo applicato ai «due Jordi» è ritenuto da molti giuristi eccessivo.
Dopo le detenzioni degli otto ex ministri di giovedì scorso sarà dunque molto importante il ruolo delle forze dell’ordine. Si teme che le proteste possano sfociare in scontri violenti. Finora il governo di Rajoy, attraverso la sua vicepresidente Soraya Saénz de Santamaría a cui il premier ha delegato la gestione del commissariamento della Catalogna, ha optato per un’applicazione «light» dell’articolo 155. Josep Lluis Trapero, il carismatico capo dei Mossos de Esquadra (la polizia catalana) accusato anch’egli di sedizione per aver permesso lo svolgimento del referendum del 1. ottobre, è stato sostituito senza creare grandi resistenze. Allo stesso modo i Ministeri dell’interno, delle finanze e delle infrastrutture catalane sono passate direttamente sotto il controllo di Madrid. Anche i 200’000 funzionari dello Stato che lavorano in Catalogna sono da 10 giorni alle dirette dipendenze del governo centrale senza che si sia verificato nessun incidente di rilievo. Ma basterà poco per fare detonare la miccia che la giudice Lamela ha acceso.