Per decenni i Benetton hanno rappresentato l’immagine convincente di un capitalismo familiare garbato, attento al prossimo, capace di felici intuizioni. Una bella storia italiana, figlia di quel Veneto, che dopo secoli di miseria ed emigrazione in mezzo secolo si è trasformato in un’incubatrice d’imprese e di affermazioni internazionali. In simile contesto anche i nuovi amori della numerosa dinastia, le relazioni extraconiugali, i figli fuori dal matrimonio sono diventati parte della narrazione.
Orfano a dieci anni Luciano Benetton (classe 1935) deve lasciare la scuola. Assunto come commesso in un negozio di tessuti un giorno si presenta con un maglione giallo confezionato dalla sorella Giuliana (classe 1936), che lavora da casa per alcune maglierie della zona. Nell’Italia ancora dominata dalle tinte neutre quell’esplosione di colori attira. Luciano intuisce che può diventare un elemento distintivo dal punto di vista promozionale e commerciale. Nel ’65 i quattro fratelli Benetton – si sono aggiunti Gilberto del 1941 e Carlo del 1943 – aprono il primo negozio con il marchio di famiglia a Ponzano Veneto, un piccolo centro in provincia di Treviso. Il successo è immediato. Nel 1971 decidono di allargarsi fuori dal Veneto e puntano grosso, Parigi: un altro boom di vendite. Nell’80 tocca a New York; due anni dopo, a Tokyo. La rivoluzionaria, per l’epoca, formula del franchising consente la moltiplicazione dei punti di vendita, arrivano a 6mila con un giro di 150 milioni di capi, e degli incassi. Tra i fratelli avviene una saggia divisione dei compiti: Luciano la guida e le strategie del gruppo; Giuliana l’ideazione dei modelli; Gilberto la finanza e i conti; Carlo l’acquisizione e la gestione delle proprietà terriere in Argentina (primo proprietario privato con 900 mila ettari).
Elio Fiorucci, forse l’intelligenza più visionaria del settore, presenta a Luciano il quarantenne fotografo Oliviero Toscani. Dal suo gusto per la provocazione sbocciano felici campagne pubblicitarie, che trasformano il marchio in un brand mondiale dell’innovazione. Si aggiungono le clamorose vittorie in formula 1: Luciano si è affidato a un geometra cuneense conosciuto a Milano, Flavio Briatore. Ha fallito in ogni intrapresa, è rimasto coinvolto in storiacce di gioco d’azzardo, però si rivela un mago delle piste. Scopre un giovanissimo pilota tedesco Michael Schumacher e si aggiudica due titoli mondiali. Negli stessi anni si chiamano Benetton le squadre di basket, di volley, di rugby dominanti nei campionati italiani.
Treviso capitale dei maglioni e dello sport diventa anche la sede di una Fondazione studi e ricerche: si occupa del disegno del paesaggio con progetti in tutto il mondo. Segue la nascita nel ’91 della rivista «Colors», firmata ancora una volta dal duo Benetton-Toscani, venduta in una quarantina di paesi e tradotta in quattro lingue. Nello stesso anno vede la luce «Fabrica», centro studi e ricerche incentrato sulla comunicazione, che comprende grafica, cinema, fotografia e molto altro. In quest’ansia di fare, di stupire, di creare consenso Benetton, eletto anche al Senato con il partito repubblicano, offre un lavoro a Fidel Castro. Con il dittatore cubano si è sviluppata una singolare simpatia durante un viaggio a Cuba. Luciano ritiene che pure lui sarà coinvolto nel crollo del comunismo sovietico. E allora perché non averlo in cattedra come «maestro della rivoluzione»? Castro, però, rinuncia, sa che il proprio potere nell’isola è inscalfibile.
La crescita del gruppo porta alla quotazione in Borsa, alla diversificazione degli investimenti, all’acquisto di Autostrade, ai ricchissimi dividendi della holding proprietaria, Atlantia. Declina soltanto il tessile, ormai pari al 5 per cento del patrimonio familiare, che nel 2017 ha registrato 12 miliardi di ricavi consolidati. Ma su 4,1 miliardi di margine operativo lordo dell’intero gruppo, quello generato dalla sola Atlantia è di 3,6 miliardi, l’88 per cento. Il risultato lordo di Atlantia e pari al 61 per cento del fatturato, una profittabilità da primato. Tolti ammortamenti, oneri finanziari e imposte, l’utile netto consolidato delle attività della famiglia è di 1,4 miliardi. L’unica perdita, 181 milioni, sono i maglioni. Ampiamente assorbita dagli altri guadagni, eppure in grado di spingere Luciano a ritornare sulla scena, dopo il ritiro del 2000. E assieme a lui ecco di nuovo Toscani nella speranza di possedere lo stesso estro di trent’anni addietro.
Ma ben altri sono diventati i problemi con il crollo del ponte a Genova. Ci sono, ovviamente, quelli economici: Atlantia, controllata al 30 per cento dai Benetton, ha già perso più di un quarto del valore, passando da oltre 20 miliardi a circa 15 miliardi; il valore delle obbligazioni in calo; le agenzie di rating Standard & Poor’s e Moody’s hanno ipotizzato un declassamento; per salvare le concessioni s’ipotizzano cospicui risarcimenti, dai 2 ai 4 miliardi, alle vittime e agli sfollati in aggiunta ai costi per la ricostruzione del viadotto. Tuttavia, il danno maggiore è all’immagine, che fin qui aveva rappresentato in mezzo secolo l’investimento vincente. I tre fratelli, in luglio è morto Carlo, non hanno pronunciato una sola parola di cordoglio e di vicinanza ai tanti coinvolti nella catastrofe; le mosse della dirigenza sono state tese alla salvaguardia del profitto; il giorno dopo il disastro nella villa di famiglia a Cortina si è svolta un’imponente grigliata. E persino gli altri ricchi della valle ampezzana hanno preso le distanze.