Per quest’articolo si è tratta ispirazione dagli spunti di riflessione di un Professore universitario ticinese (lettore assiduo di «Azione»), che mi ha tempo addietro ispirato a riflessioni sullo stesso filone degli articoli «“Costo” e “prezzo”, gemelli diversi» («Azione 03» del 2016, pp. 22-22) e «Reddito e rendita, simili eppur diversi» («Azione 15» del 2016, pp. 27-27). La tematica è da sempre nelle società capitalistiche (ormai, piuttosto a carattere finanziario rispetto a quello industriale, se si pensa esemplificativamente che nel 2009 in Germania il patrimonio bancario equivaleva a 4,6 volte il PIL (1) oggetto di accesa discussione. Se nel gergo comune con «guadagno» alias «profitto» si suole indicare il margine di utile su ogni unità di prodotto, con «beneficio» sarebbe però limitativo fare altrettanto. Intendiamoci: il guadagno è e rimane il margine derivante da un’attività economica. La crisi globale «affacciatasi» per la prima volta nel 2007 ha, però, evidenziato un netto scollamento fra variabili puramente economiche ed altre pertinenti ad una sfera sociale più ampia – a titolo esemplificativo, ma non esaustivo: la percezione di giustezza ed adeguatezza del lucro o dei compensi milionari.
«Beneficio» nelle sue accezioni bidirezionali di «fare bene» – quindi, «trarne beneficio» – sembra particolarmente adatto ad estendersi non solo alla sfera economica, ma si presta anche ad essere sinonimo di «soddisfazione», concetto di difficile traduzione numerica. Senza scomodare l’«economia della felicità», che ha saputo dimostrare che ad aumenti della ricchezza individuale e/o sociale non debbano fare necessariamente seguito incrementi del livello di soddisfazione (ad esempio, Costa Rica e Puerto Rico, che il FMI stima nel suo World Economic Outlook Database collocarsi nel 2016 rispettivamente al 75esimo e 60esimo posto per PIL, si trovano alla 14esima e 15esima posizione per «felicità» (2), è evidente che attività a carattere volontario o i cosiddetti «doni» (gift) consistenti nel migliore espletamento delle proprie mansioni in ambienti aziendali di soddisfazione o ogni altra buona predisposizione verso il prossimo poco si concilino con certi postulati economici. Infatti, la teoria più tradizionale vorrebbe gli individui come soggetti perfettamente razionali nelle loro decisioni (homines oeconomici) in grado di quantificare la rinuncia reddituale susseguente ad essersi dedicati ad altre attività. Quest’ultimo concetto definito «costo opportunità» sembrerebbe, però, non prevedere che decisioni consapevoli e foriere di vantaggio economico: per così dire, tutto ciò che non comporti un netto guadagno sarebbe da evitarsi. L’inadeguatezza di simili conclusioni (almeno se prese tout court) è ampiamente dimostrata dai tassi di volontariato (vedi allegato sulla colonna a lato), cioè dalla percentuale media di popolazione che nei 12 mesi antecedenti la rilevazione statistica stessa abbia dedicato una qualche parte del proprio tempo alla «buona causa».
Se si è voluto da un lato calcare la mano su certi concetti, che la stessa teoria economica ha saputo – evidenza empirica alla mano – nel tempo smussare, dall’altro il problema continua comunque ad esistere. «Guadagno» pare essere un sottoinsieme di «beneficio», cioè è volontà crescente della popolazione mondiale che la dimensione economica non sia a discapito di quella sociale (quindi, che tenga in conto di tanti elementi finora trascurati). A livello aziendale, ad esempio, sono molti gli aspetti che tale distinzione potrebbe toccare: dall’opportunità (o meno) di delocalizzare ampi processi produttivi fino alla discrepanza spesso abissale fra «costi di produzione» e «prezzi di vendita». La crisi economico-finanziaria globale – se proprio vi si voglia rinvenire un qualche aspetto positivo – ha da un lato «smascherato» la fragilità degli assunti teorici economici, dimostrando che i soggetti perlopiù non agiscono in modo calcolato (e, quindi, facilmente prevedibile): dall’altro, ha evidenziato un crescente ripudio sociale della «smania di guadagno» attribuita alle lobby economico-finanziarie più disparate.
La nuova «arma», di cui dispone il consumatore oggi, gli è stata fornita nientemeno che dalle stesse corporazioni multinazionali ed è proprio la concorrenza globale, cioè la diffusa possibilità di rivolgersi ad altri canali o persino mercati extra-nazionali nel fare fronte alle proprie esigenze d’acquisto. Sarà compito del marketing aziendale intercettare dove (e per quali beni/servizi) l’utente sia disposto a co-finanziare guadagni suscettibili di essere considerati eccessivi e dove invece no: nel contempo, ai policymaker toccherà sapere cogliere tale malumore sociale, incentivando con le proprie scelte il cambiamento in atto. Insomma: se l’economia non teorizza una vera e propria frattura fra «beneficio» e «guadagno», la quotidianità ha saputo insegnarcene l’esistenza, dimostrando ancora una volta di sapere arrivare prima. Nell’era della riduzione forzata dei costi (principalmente, imputabile alla competizione globale) e dell’incremento disomogeneo dei profitti, il tema non può essere che attuale – anche a livello industriale e politico.
Note
1. http://de.statista.com/statistik/daten/studie/172641/umfrage/vermoegen-von-banken-im-verhaeltnis-zum-bip-ausgewaehlte-laender/
2. http://worldhappiness.report/wp-content/uploads/sites/2/2016/03/HR-V1Ch2_web.pdf