«Il Libano è troppo piccolo e vulnerabile per sopportare il carico economico e politico che comportano queste dimissioni… e io insisterò perché si arrivi al dialogo tra Arabia Saudita e Iran». Lapidario ed essenziale, il vecchio Walid Jumblatt ha focalizzato al volo quale gravissima minaccia per la stabilità del suo paese si nascondesse dietro le dimissioni del premier Saad Hariri del 4 novembre scorso. Leader della comunità drusa del piccolo paese dei cedri, Jumblatt ha vissuto in prima persona gli orrori della guerra civile che ha dilaniato il Libano dal 1975 al 1990, ha lottato assieme ai cristiani e ai sunniti per cacciare l’esercito siriano che stazionava nel paese dal 1976 e in quella lotta a rimetterci la vita fu il padre di Saad Hariri, Rafiq, in un attentato in pieno centro a Beirut nel 2005, in seguito al quale, sempre nel 2005, le truppe di Bashar al-Assad furono costrette dalle Nazioni Unite ad andarsene.
All’indomani della scomparsa di Rafiq Hariri venne poi creato il Tribunale speciale per il Libano, con sede all’Aja, che da allora indaga sulla sua morte, per la quale ha incriminato membri di Hezbollah, non si sa in che misura «coperti» dai servizi segreti siriani. Hezbollah e servizi siriani ovviamente hanno sempre negato ogni loro coinvolgimento. Ma da allora il Libano – se si esclude lo Yemen ormai devastato – è diventato la pedina più fragile del braccio di ferro tra Arabia Saudita e Iran in Medio Oriente.
Dal 2005 ad oggi, infatti, si è drammaticamente sbilanciato il rapporto di forza tra le due potenze del Golfo. Mentre l’Iran, padrino degli Hezbollah, non ha fatto che rafforzarsi (in Iraq, nella guerra civile seguita all’Operazione Iraqi Freedom del 2003 che ha abbattuto la dittatura di Saddam Hussein e in Siria, sostenendo Bashar al-Assad ufficialmente «nella lotta al terrorismo» dell’Isis), l’Arabia Saudita si è invece drammaticamente indebolita negli stessi quadranti di conflitto tanto più quanto dal 2015 nella guerra in Siria è intervenuta la Russia, vero pilastro del regime di Damasco e alleata sul terreno di Teheran.
L’attivismo di Putin in Medio Oriente è un’ altra grossa novità nell’attuale panorama geostrategico della regione. Non staremo a ripetere l’importanza del suo intervento nella guerra civile siriana, ma è una realtà che la Russia abbia saputo sfruttare il declino degli Stati Uniti nell’area mediorientale e non solo in quella. Sta di fatto che oggi com’è oggi i tradizionali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, a partire dall’Arabia Saudita e dal Libano, non si sentono affatto rassicurati dal comportamento ondivago della presidenza Trump.
A parole Trump, infatti, sostiene ogni mossa dell’erede al trono di Riad, Mohammed bin Salman (MbS), dall’intervento armato in Yemen alla contrapposizione con Teheran, ribadendo ad ogni piè sospinto che farà di tutto per smantellare l’Accordo sul nucleare iraniano, negoziato nel 2015 dai cosiddetti 5+1 (Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Usa più la Germania). Nei fatti per ora è riuscito soltanto a decertificare parzialmente l’Accordo, in attesa che il Congresso trovi il bandolo di un processo di revisione molto complesso mentre deve contemporaneamente vagliare le nuove sanzioni che il presidente vorrebbe comminare a Teheran per il suo programma di rafforzamento dell’arsenale missilistico (molti vettori, tra l’altro, sono di fabbricazione nord-coreana) e per l’appoggio fornito a Bashar al-Assad in Siria, agli Hezbollah libanesi e ad altri gruppi terroristici in Medio Oriente.
Un iter che richiederà tempo e che non è detto vada in porto secondo i desiderata di Trump, perché parte della sua stessa amministrazione ci va coi piedi di piombo (leggi il segretario di Stato Rex Tillerson), il Congresso potrebbe riservargli sorprese e soprattutto tutti gli altri firmatari dell’Accordo sono fermamente intenzionati a mantenerlo in vigore. Tra parentesi, non più tardi del 10 novembre scorso Yukiya Amano, il direttore generale dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (Aiea), ha riaffermato all’ambasciatrice americana all’Onu Nikki Haley che l’Iran sta pienamente rispettando gli impegni presi nel 2015.
Cinicamente parlando, ci chiederemo quanto le improvvide fughe in avanti di Trump abbiano spinto l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman a bruciare i tempi nel braccio di ferro con l’Iran tentando di destabilizzare il Libano? Qualora la situazione dovesse davvero farsi critica l’Iran sarebbe costretto a scendere in campo accanto agli Hezbollah, mentre è ancora attivamente impegnato in Siria, Iraq, Yemen, Afghanistan e dio solo sa dove altro. Detto in parole povere, l’Arabia Saudita, proprio perché si sente debole, potrebbe aver «indotto» il primo ministro libanese Saad Hariri (sunnita e legato a Riad da affari di vecchia data) a dimettersi per frenare l’ascesa dell’Iran nella regione e impedirgli di consolidare quell’accesso al Mediterraneo via Iraq-Siria e Libano che oggi, nella parte terminale, gli è garantito proprio dagli Hezbollah.
Questa peraltro è la tesi del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che in un bollente discorso televisivo del 10 novembre, ha addirittura sostenuto che Hariri è stato costretto dai sauditi a lasciare il proprio incarico e sarebbe in pratica prigioniero a Riad. Dal canto suo il presidente libanese Michel Aoun, cristiano ma filo-Hezbollah, non ha ancora accettato le dimissioni del primo ministro e ha chiesto ufficialmente lumi sulla sua sorte all’Arabia Saudita. Riad ha rassicurato tutti senza convincere nessuno ed è dovuto intervenire Saad Hariri in persona, il 12 novembre con un’intervista sull’emittente televisiva del suo partito, il Movimento per il Futuro, per dire sostanzialmente che forse ritirerà le dimissioni, presto tornerà in patria, e potrà collaborare di nuovo con gli Hezbollah purché depongano le armi e si ritirino da tutti gli scenari di conflitto in cui sono intervenuti. Sa benissimo che gli Hezbollah non lo faranno mai. Il premier, «nel limbo» diremo noi, era visibilmente imbarazzato e affaticato, e anche solo per questo i suoi concittadini sono rimasti molto scettici sulle sue sorti. A preoccuparsi seriamente è stato il presidente Aoun che il 14 settembre ha sposato la tesi di Nasrallah e ha accusato Riad di tenere Hariri prigioniero, chiedendo il suo ritorno entro 12 ore prima di appellarsi al diritto internazionale.
Le dimissioni di Saad Hariri assomigliano tanto ad una partita a poker con l’acqua alla gola (di Riad e Beirut) tutta giocata sui seguenti interrogativi: fin dove sono disposti ad arrivare gli Hezbollah e l’Iran per mantenere la supremazia che si sono conquistati in Libano anche in virtù dei loro interventi in Iraq e in Siria? E nel caso tentassero un colpo di mano militare, fin dove è disposta la Russia a «coprirli»? Allo stato attuale delle cose Putin, almeno alla luce del sole, non è mai intervenuto in Libano, ma l’accesso al Mediterraneo lo interessa molto, visto che l’appoggio a Bashar al-Assad gli ha fruttato la base navale di Tartus sulla costa siriana e tre basi militari che sono anche basi aeree da cui può tenere sotto controllo non solo il Mediterraneo, ma l’intera regione.
La Russia però è in buoni rapporti anche con l’Arabia Saudita, cui vende interi sistema d’arma come all’Iran. Può darsi allora che Putin abbia maggior interesse a mediare tra le due potenze del Golfo piuttosto che appiattirsi sull’asse Iran-Siria-Hezbollah più la Turchia, e aumentare così il suo prestigio e potere in Medio Oriente, a scapito degli Stati Uniti. Stati Uniti che, per bocca del segretario di Stato Rex Tillerson, il 10 novembre si sono limitati ad invitare tutti gli attori regionali a non trasformare il Libano nel teatro di un’altra guerra per procura, definendo però Hariri «un solido partner» degli Usa. Un po’ pochino per rassicurare o spaventare chiunque.
Dal canto suo l’Iran per ora ha espresso solo preoccupazione, denunciando «una manovra destabilizzatrice dell’Arabia Saudita, degli Stati Uniti e dei sionisti», a proposito dei quali poniamoci un ultimo interrogativo: cosa farà Israele? Quello che si teme a Gerusalemme è che la mossa dell’Arabia Saudita (le dimissioni di Hariri) altro non sia che il mezzo per spingere Israele ad intervenire in Libano contro gli Hezbollah, e cominciare così anche a «tagliare le unghie» all’ arci-nemico Iran, indebolendo la sua creatura. Non è un mistero per nessuno che negli ultimi mesi Israele abbia moltiplicato i suoi raid militari in Siria per impedire che forniture militari provenienti da Teheran arrivassero agli Hezbollah. Ma nessuno ha dimenticato l’esito della guerra israelo-libanese del 2006 quando l’esercito e l’aviazione con la stella di Davide rasero al suolo mezzo Libano per punire il continuo lancio di razzi da parte degli Hezbollah verso le città israeliane e le uccisioni e i rapimenti di militari israeliani sul confine. Gli Hezbollah non solo sopravvissero, ma ne uscirono come vincitori «morali» potendosi vantare di aver difeso il suolo patrio in prima linea, laddove l’esercito libanese non aveva saputo opporre nessuna efficace resistenza. Da allora gli Hezbollah sono diventati ancora più forti e «professionali» in termini militari, e l’esito di un ulteriore scontro non sarebbe affatto scontato.