Dal 1975-1990: quindici anni di scontri e paura

Un tempo considerata la Parigi del Medio oriente, Beirut è stata attraversata da anni di crisi e conflitti. Quattro decenni fa, il 13 aprile 1975, scoppiò una guerra durata 15 anni, che è costata almeno 150’000 vite, ha provocato 300’000 feriti e ha portato all'emigrazione di quasi un milione di persone, conducendo lo Stato libanese vicino al collasso. Tra gli elementi che innescarono il conflitto furono i contrasti tra la componente cristiana del Libano, che temeva di perdere la propria predominanza in seguito all’arrivo dei profughi palestinesi, e la componente musulmana, che si sentiva sottorappresentata nelle istituzioni e intendeva rimettere in discussione i rapporti di forza. Ad alimentare la guerra contribuì l’intervento di altri Stati, decisi a perseguire i propri interessi nel Paese. La guerra portò alla divisione della capitale Beirut lungo una «linea verde»: la parte occidentale riservata ai musulmani, quella orientale ai cristiani. Alla fine degli anni Ottanta il conflitto intra-settario aveva frammentato ogni aspetto della società e dell’autorità statale in Libano. La milizia sciita Amal prese il controllo di Beirut ovest e le tensioni tra Amal e i palestinesi sfociarono nella «guerra dei campi», provocando l’occupazione siriana di Beirut ovest nel 1987.

La rivalità tra Hezbollah (organizzazione paramilitare islamista libanese sciita) e Amal impose i primi come forza dominante di Beirut, mentre tra i cristiani emerse Michel Aoun, che sempre più si imponeva come leader nazionalista laico. Dopo 15 anni di guerra nessuno dei gruppi è stato in grado di stabilire il dominio sugli altri e le divisioni settarie sono continuate come prima. L'accordo di Ta’if del 1989, che è stato firmato dai parlamentari libanesi sopravvissuti e ha cristallizzato la situazione di «nessun vincitore e nessun vinto», ha portato alla modifica della Costituzione senza modificare però il confessionalismo. Secondo i suoi termini, infatti, i seggi parlamentari sono stati equamente distribuiti tra cristiani e musulmani. Tutte le milizie furono disarmate nel marzo 1991 ad eccezione di Hezbollah, che ha continuato il conflitto contro Israele nella zona di confine.


Beirut e lo spettro della guerra civile

La tensione è altissima in Libano, messo in ginocchio dalla pesante crisi economica e sociale. Hezbollah e Amal mostrano i muscoli e sembrano disposti a tutto pur di non perdere il predominio politico e finanziario oltre al sostegno dell’Iran
/ 25.10.2021
di Francesca Mannocchi

La tensione è tornata altissima a Beirut. Il 14 ottobre scorso la capitale libanese è stata teatro di scontri a fuoco durante una manifestazione dei movimenti sciiti Amal e Hezbollah indetta contro il giudice Tarek Bitar, titolare delle indagini sulla violenta esplosione di 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio che il 4 agosto 2020 ha ucciso oltre 200 persone, ferendone 6000 e distruggendo interi quartieri della città. Durante gli scontri armati – durati più di quattro ore – sono morte sei persone e circa trenta sono state ferite, alcune in modo grave. Tra le vittime una ragazza di 24 anni colpita alla testa da un colpo vagante mentre era sul balcone di casa a stendere il bucato.

La manifestazione era stata organizzata per ribadire la posizione di Hebzollah e Amal contro le indagini, già interrotte due volte in pochi mesi e che, proprio la mattina della manifestazione, il giudice Bitar era stato autorizzato a riprendere. I due movimenti politici avevano radunato i loro sostenitori davanti al Palazzo di giustizia di Beirut per chiedere la cessazione di quella che hanno definito una «politicizzazione della giustizia». In verità, come sottolinea-no i cittadini e soprattutto i parenti delle vittime dell’esplosione, né Amal né Hezbollah vogliono che emergano i nomi dei responsabili legati ai loro movimenti che erano coinvolti nella sicurezza del porto, e il corteo è parte della strategia di Hezbollah per sottrarsi alle responsabilità dei crimini commessi e tentare di intimorire l’opinione pubblica.

La manifestazione è stata la prova muscolare, armata, che Hezbollah può controllare non solo i suoi sostenitori ma gli equilibri del Governo e della vita parlamentare. Gli scontri armati sono infatti l’altra faccia delle minacce politiche, quelle di boicottare il Gabinetto di Najib Mikati insediatosi, dopo 13 mesi di stallo, lo scorso 10 settembre. I ministri di Hezbollah hanno infatti minacciato di ritirarsi dal Governo se il giudice Bitar non verrà rimosso dalle indagini. Nella rigida spartizione confessionale del potere in Libano, se la rappresentanza sciita si ritira, il Governo cade e alla formazione del Governo, oggi, sono legati gli aiuti internazionali di cui il Paese ha disperatamente bisogno, visto che la moneta ha perso il 90% del suo valore in meno di due anni e che la crisi economica del Libano è ritenuta – dalla Banca mondiale – la peggiore al mondo dal 1850.

Il giudice Tarek Bitar è il secondo giudice titolare delle indagini per determinare la causa esatta dell'esplosione dell'agosto 2020 nel porto di Beirut e identificare i responsabili. Il suo predecessore Fadi Sawan era stato rimosso perché accusato di essere in conflitto di interesse e non imparziale poiché anche lui aveva perso casa durante l’esplosione. Dopo essere stato nominato lo scorso luglio, Tarek Bitar ha chiesto di poter convocare politici e funzionari di sicurezza, ha fissato udienze per interrogare l’ex primo ministro Hassan Diab e ha dichiarato di voler interrogare tre ex ministri e intentare contro di loro un processo con l'accusa di omicidio e negligenza criminale. Molti si sono rifiutati di comparire, Hassan Diab si è recato negli Usa pur di non presentarsi all’udienza e gli altri – soprattutto esponenti di Hezbollah – hanno cominciato ad accusarlo di voler politicizzare le indagini. Era chiaro dall’inizio, soprattutto alle famiglie delle vittime, che Bitar avrebbe incontrato le stesse sfide e i medesimi ostacoli del suo predecessore, manovre politiche che avrebbero protetto e garantito impunità ai colpevoli, lasciando i libanesi – una volta ancora – a subire i danni delle politiche settarie. Stavolta, però, si sono scatenati eventi più drammatici del previsto, le armi sono tornate nelle strade e Beirut sembrava essere ripiombata ai tempi che hanno preceduto il 1975.

I tre gruppi coinvolti negli scontri hanno familiarità con il conflitto armato: Hezbollah e il movimento Amal si sono a lungo schierati dalla parte opposta rispetto al partito delle Forze libanesi, composto da cristiani maroniti. Lo stesso hanno fatto la settimana scorsa: i sostenitori di Hezbollah hanno accusato uomini armati delle Forze libanesi di aver attaccato i loro sostenitori. Le Forze libanesi hanno negato di aver iniziato la sparatoria e hanno, a loro volta, accusato Hezbollah e i suoi alleati di alimentare la violenza settaria per cercare di far fallire le indagini sul porto.

La manifestazione di Hezbollah e Amal era un modo per dire: se non bastano le pressioni politiche, agiremo con la forza, innescando nelle persone la paura del ritorno di una guerra civile. Non è una tattica nuova per il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, il Paese lo sa bene, la milizia che conta un esercito più potente delle stesse truppe ufficiali libanesi, aveva fatto lo stesso durante i processi per gli omicidi politici del 2005, un’espressione muscolare della forza che era servita allora, e serve oggi, a dire che Hezbollah è disposta a sacrificare la stabilità del Paese pur di non perdere il dominio politico, finanziario e il sostegno sempre più solido dell’Iran. Nato durante l’invasione israeliana del Libano del 1982 come milizia impegnata in una attività di guerriglia, Hezbollah ha raccolto molto sostegno e consenso, per convinzione ma spesso anche per paura delle conseguenze, diventando di fatto uno Stato nello Stato che spesso opera al di fuori del controllo militare e governativo ufficiale. Ha la propria milizia, i propri ospedali, le reti commerciali, un solido sistema di welfare e altri servizi come scuole e organizzazioni caritatevoli. Dopo essere entrato a far parte del Governo, nel 2005, è stato identificato dai cittadini come parte del sistema clientelare e corrotto colpevole di aver trascinato il Paese nel caos e nel fallimento economico.

Negli ultimi due anni – dallo scoppio della crisi economica nell’autunno del 2019, fino all’esplosione del porto e alle tragiche conseguenze economiche che ha provocato – una solida reazione anti-Hezbollah ha cominciato ad attraversare molti strati del Paese, esacerbando le fratture tra musulmani e cristiani come ai tempi della guerra civile. L’antagonista di Hezbollah è il partito delle Forze libanesi: anche questa milizia cristiana di destra ha alle spalle una feroce storia legata al conflitto civile, interrotta quando nel 1990 gli accordi di Taif che hanno diviso il potere secondo spartizioni settarie, hanno di fatto trasformato i signori della guerra in politici. Da allora Samir Geagea, leader della milizia cristiana, è stato uno dei più ferventi oppositori di Hezbollah e ora sta, evidentemente, cercando di trarre vantaggio dal malcontento della gente verso il gruppo sciita.

Quello che è certo è che il 14 ottobre scorso il Libano sembrava tornato indietro di trent’anni: pistole, kalashnikov, bombe a mano, granate a propulsione e, nel mezzo, decine di civili inermi che venivano evacuati dalle proprie abitazioni, terrorizzati, mentre l’esercito dispiegato nelle strade provava a riportare ordine. I parenti delle vittime dell’esplosione del porto hanno continuato a chiedere giustizia, come fanno da quattordici mesi, ogni 4 del mese, giorno della ricorrenza della tragedia. Dopo i recenti scontri hanno espresso rabbia e rinnovato il sostegno per il lavoro del giudice Bitar. «La ricerca di giustizia – hanno detto in un comunicato – deve rimanere libera da qualsiasi controversia politica, settaria o religiosa. Noi, famiglie delle vittime, chiediamo che la politica e le milizie tolgano le mani dalla magistratura, il giudice Bitar deve continuare a indagare, nonostante le minacce».