Basta cinguettare?

Il social dei giornalisti – Sulla stampa americana si è aperto un dibattito sull’urgenza di uscire da Twitter, diventato un vero e proprio editore che fa lavorare gratis
/ 04.02.2019
di Christian Rocca

Che cosa sarebbe Twitter senza i giornalisti e che cosa sarebbero i giornalisti senza Twitter. Sarebbero entrambi diversi, molto diversi, da come li conosciamo adesso. Twitter è il social media delle notizie, dei commenti e delle analisi istantanee, per questo è chiamato «il social dei giornalisti». Ma proprio nel mondo dell’informazione americana, nei giorni scorsi, si è aperto un dibattito sull’urgenza di uscire da Twitter: «Basta twittare», ha scritto il «New York Times» in un editoriale del suo esperto di cose tecnologiche. La Cnn gli è andata dietro, citando un manager della Silicon Valley secondo il quale «i giornalisti sono la linfa vitale di Twitter, una parte enorme del suo valore è creato dai contenuti che i giornalisti gli forniscono gratuitamente».

Quello tra i giornalisti e Twitter è un rapporto morboso perché è su Twitter che si trovano le notizie, e dove si trovano prima di altrove, fin da quando Barack Obama decise di annunciare proprio sul social degli allora 140 caratteri di aver scelto Joe Biden come vicepresidente. Da allora, qualunque personaggio pubblico voglia comunicare qualcosa sceglie la perentorietà di Twitter, per questo i giornalisti non possono non frequentarlo. Ma il problema non è questo, dicono i sostenitori del «basta twittare»: il problema è che, frequentando il social network, la gran parte dei giornalisti sente l’urgenza di dire la sua, di fare una battuta tagliente, di retwittare qualcosa e così via, sottraendo tempo, attenzione e dedizione al lavoro e ragione d’essere al giornale che gli paga lo stipendio.

Non si è mai capito per quale motivo gli editori di tutto il mondo, quelli grandi e quelli piccoli, quelli prosperi e quelli in crisi, consentano ai propri giornalisti di lavorare, tra l’altro gratuitamente, per un super mega editore concorrente che a poco a poco li sta facendo a pezzi. Nei primi anni di Twitter, addirittura, gli editori incoraggiavano i propri dipendenti, redattori ed editorialisti, a essere presenti sui social in modo da diffondere link e contenuti dei propri giornali, ma presto è diventato un’altra cosa: Twitter è diventato il più grande editore del mondo capace di offrire in anteprima le notizie riportate dai più celebrati giornalisti del pianeta e i commenti delle migliori firme su qualsiasi argomento immaginabile, tutto gratis e a carico dei datori di lavoro terzi, ma anche la piattaforma dove il grande commentatore e il redattore frustrato, o viceversa, sentono la necessità di comunicare i propri pensieri politici o privati senza riuscire a sottrarsi alle degenerazioni tipiche della discussione social.

Emblematico è il recente caso dello studente trumpiano della Covington Catholic High School della Louisiana che ha molestato un anziano indiano d’America apparentemente colpevole soltanto di suonare un antico ritmo della sua tribù. Il video del ragazzo cattivo e dell’anziano inerme parlava da solo e su Twitter si è scatenato l’inferno contro il bullo, contro la scuola bigotta, contro Trump e in difesa della vittima. Gli opinionisti si sono lasciati trascinare da una storia che sembrava confermare ogni tipo di pregiudizio possibile. Solo che, un paio di giorni dopo, sono comparsi altri video e, come in Rashomon, si è scoperto che viste da un’altra angolatura le cose sono andate in modo diverso: i ragazzi della scuola cattolica erano in realtà le vittime di insulti razzisti e omofobici da parte di un gruppo razzista afroamericano ed è stato l’anziano native american, in questo clima molto teso, ad avanzare senza alcuna ragione verso il ragazzo e a sfidarlo con lo sguardo fino a suonargli il tamburo davanti alla faccia.

Una seconda versione che, ovviamente, ha scatenato i commentatori della parte opposta. Non importa capire chi fosse la vittima e chi il provocatore in questo caso, semmai il fatto che un episodio reale, visto in modo parziale una prima volta e in modo altrettanto parziale la seconda, abbia scatenato una reazione così profonda, contribuendo ad avvelenare il dibattito pubblico e a fare leva sui peggiori istinti della natura umana. Il caso degli studenti della Covington High School è la ripetizione, ancora una volta, del caso di Justine Sacco, la ragazza la cui vita nel 2013 è stata rovinata da un tweet sarcastico con il quale intendeva prendere in giro il pregiudizio razzista dei bianchi nei confronti dell’Aids, ma che è stato interpretato, al contrario, come un messaggio razzista contro i neri.

Meglio non twittare, dunque, o pensarci molto bene prima di farlo. La cosa non vale soltanto per gli operatori dell’informazione. Detto questo, uscire da Twitter non sarebbe nemmeno eticamente corretto per un giornalista, come spiegano i sostenitori della tesi contraria, perché vorrebbe dire rifiutare di ascoltare una parte del pubblico di lettori che trova sui social e negli hashtag il luogo e lo strumento per poter comunicare, non avendone altri. Il giornalismo è conversazione, e quindi anche ascoltare il pubblico.