Una lunga estate calda, con la «questione catalana» che arriva fin sotto l’ombrellone. Durante le imminenti vacanze gli spagnoli quest’anno avranno come tema di discussione anche i rapporti tra Barcellona e Madrid. Non si parlerà però della consueta rivalità sportiva tra le due squadre di calcio, bensì il derby Barça-Madrid avrà una connotazione prevalentemente politica. In effetti il solitamente tranquillo trascorrere dell’agenda politica spagnola durante i mesi estivi è stata messa a soqquadro da quando il 10 giugno scorso il governo catalano (la Generalitat) ha dichiarato la convocazione di un nuovo referendum indipendentista, previsto per il primo ottobre. Il quesito referendario terrà banco in Parlamento, nei media così come nei bar de tapas, e sarà il tormentone che accompagnerà gli spagnoli fino a estate inoltrata. Saranno i tre mesi più intensi della storica diatriba tra le velleità secessioniste della Catalogna e la chiusura oltranzista del governo centrale di Madrid in una contesa che sembra essere entrata nella sua fase finale.
Il presidente del governo catalano Carles Puigdemont ha infatti deciso di dar seguito a ciò che aveva promesso sin dall’inizio della nascita del suo esecutivo nel gennaio 2016, cioè quello di mettere in marcia il cosiddetto «processo di disconnessione» da Madrid, e ha convocato un referendum che conterrà un’unica domanda: «Volete che la Catalogna sia uno Stato indipendente sotto forma di repubblica?». E per dare maggiore visibilità internazionale a questa battaglia per l’indipendenza della Catalogna, la società civile barcellonese ha puntato su una personalità dello sport catalano riconosciuta internazionalmente come Pep Guardiola. Quest’ultimo, famoso per essere stato l’allenatore del Barcellona più vincente della storia del calcio, è ora diventato il simbolo della lotta verso la tanto agognata indipendenza.
L’icona del calcio catalano si è esposta in prima persona per il prossimo referendum nella prima grande manifestazione indipendentista organizzata per dare inizio alla campagna in vista del voto. Davanti a 40’000 persone entusiaste che scandivano slogan che richiamavano alla libertà di espressione, al diritto di voto e alla democrazia, Guardiola ha letto un discorso in catalano, spagnolo e inglese, e si è rivolto alla comunità internazionale perché appoggi il referendum di autodeterminazione come avvenuto in Scozia e Québec. L’ex allenatore del Barcellona si è spinto a dire addirittura che la Catalogna è «vittima di uno Stato che ha messo in atto una persecuzione politica indegna del ventunesimo secolo» e ha esortato la popolazione catalana ad andare in massa al voto, anche se il governo di Madrid dovessero proibirlo.
La strategia di Puigdemont e della Generalitat è chiara: puntare sul nazionalismo identitario catalano, giocare il ruolo della vittima e cercare di internazionalizzare una querelle puramente interna. Il governo catalano accusa Madrid di non avere dato risposta alle offerte di negoziato catalane, riferendosi in particolare a una lettera inviata il 24 maggio scorso al primo ministro Mariano Rajoy. Nella missiva si invitava il premier ad avviare un dialogo sui termini del referendum, ma questa proposta è stata completamente ignorata dal capo dell’esecutivo spagnolo. Questa, agli occhi dei catalani, sarebbe stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso di un conflitto che si è incendiato sette anni fa, quando una sentenza della Corte costituzionale di Madrid (maggioritariamente composta da giudici conservatori vicini alle posizioni del Pp di Rajoy) aveva bocciato lo Statuto catalano in cui si riconosceva la Catalogna come «nazione».
Da allora è stata tutta una escalation: due milioni di persone manifestarono in favore dell’indipendenza per le strade di Barcellona (nel 2012), un primo referendum consultivo nel 2014 (dichiarato a posteriori illegale ancora dalla stessa Corte costituzionale) fino alla nascita nel gennaio 2016 di un governo catalano che ha come principale obiettivo quello della creazione di un nuovo Stato. Va sottolineato il fatto che, per ora, Puigdemont e il governo catalano hanno fatto solo una solenne dichiarazione di intenti ma non è stato firmato alcun decreto ufficiale. Questo perché la Generalitat vuole evitare che il Partito popolare di Rajoy faccia immediatamente ricorso alla Corte costituzionale spagnola che verosimilmente bloccherebbe la convocazione del referendum e chiederebbe il processo dei massimi dirigenti catalani, come è già avvenuto nel caso di Artur Mas.
L’ex presidente della Catalogna è stato in effetti condannato nel marzo scorso all’interdizione per due anni dai pubblici uffici per aver convocato il referendum del novembre 2014. È probabile quindi che il decreto per la celebrazione del referendum venga approvato dal Parlamento catalano solo poche settimane prima dello stesso per evitare che ci siano i tempi tecnici per presentare un ricorso da parte del Partito popolare di Rajoy.
Il capo dell’esecutivo spagnolo ha comunque già dichiarato illegale e anticostituzionale il referendum catalano e ha detto che farà di tutto per impedirne lo svolgimento. La vicepresidente del governo Soraya Sáenz de Santamaría ha rincarato la dose affermando che quella del governo catalano è una provocazione, parte di una strategia che ha l’obiettivo di far crescere il clima di tensione e che le dichiarazioni di Guardiola sono semplicemente uno «show mediatico». Anche la maggioranza degli editorialisti e degli intellettuali spagnoli hanno stigmatizzato la decisione di Puigdemont e le parole di Guardiola, considerate fuori luogo «perché rischierebbero di mettere a repentaglio la convivenza pacifica tra i cittadini della Spagna intera», come ha scritto «El País», storico giornale progressista di Madrid.
Peraltro non solo buona parte della Spagna è scettica sull’opportunità di questo referendum ma anche la società catalana stessa è spaccata al suo interno. A Barcellona gli estremismi ideologici (pro o contro l’indipendenza) prevalgono sulla moderazione o sulla ricerca del dialogo. Sono frequenti sui giornali o nei media i racconti di storie di famiglie divise, amicizie rotte e anche i social media catalani riflettono perfettamente la polarizzazione delle posizioni.
I dati dei sondaggi nel corso di questi anni hanno sempre indicato una situazione di sostanziale parità nelle preferenze dei catalani (ultimamente il 45% sarebbe a favore dell’indipendenza, mentre il 48% contrario). C’è però un altro importante dato confermato da tutti gli istituti demoscopici: la stragrande maggioranza dei catalani (attorno al 75%) vuole potersi pronunciare attraverso un referendum. E in questo fatto sta tutto il nocciolo della questione politica. Per gli indipendentisti catalani «democrazia» è intesa come il diritto di potersi esprimere sul proprio futuro come nazione attraverso una consultazione, mentre per il governo centrale di Madrid «democrazia» significa far prevalere il rispetto delle leggi vigenti (in particolar modo la Costituzione, che andrebbe modificata per permettere lo svolgimento del referendum). Il problema per i catalani però è che tre dei quattro principali partiti spagnoli (Partito popolare, Partito socialista e Ciudadanos) sono contrari allo svolgimento di un referendum in Catalogna e solo Podemos appoggia la consultazione.
Cosa succederà adesso è difficile da pronosticare anche per gli analisti politici più esperti. Alcuni ritengono che, una volta convocato ufficialmente il referendum, e dopo che l’esecutivo di Madrid ne avrà vietato lo svolgimento, il governo catalano indirà elezioni anticipate per cercare di raccogliere elettoralmente la rabbia frustrata degli indipendentisti. Queste sono però solo speculazioni, l’unica certezza è che sarà un’estate rovente, con accese discussioni nei bar delle Ramblas di Barcellona così come nel resto di Spagna, in un muro contro muro che nessuno sa dove porterà.