Balzo avanti della «mia» Cina

Diario da Pechino – Dieci anni dopo aver chiuso l’ufficio di Pechino, il giornalista di «Repubblica» torna per raccontare i cambiamenti che si sono verificati: alcuni positivi, altri negativi, tutti molto significativi – Prima parte
/ 15.07.2019
di Federico Rampini

Cinque giorni di cielo azzurro a Pechino… e senza neppure le Olimpiadi! È una delle prime sorprese – questa decisamente positiva – che mi accolgono al mio ritorno. Esattamente dieci anni fa chiudevo la mia esperienza cinese. Avevo inaugurato il primo ufficio di corrispondenza di «Repubblica» a Pechino nel luglio 2004, ci sarei rimasto fino al mio trasferimento a New York nel luglio 2009. Da allora ci sono tornato regolarmente, circa una volta ogni anno. Il più delle volte come inviato al seguito di un presidente degli Stati Uniti, Barack Obama o Donald Trump, per seguire qualche vertice bilaterale o dei super-summit tipo il G20. Altre volte in vacanza per rivedere i miei tre figli adottivi. Dunque non ho mai veramente staccato la presa, l’attenzione verso la Cina è rimasta costante.

Però gli anniversari ti rendono più sensibile ai cambiamenti; ti costringono a fare dei bilanci. Così quest’ultima visita – tutta privata, una riunione familiare – mi ha imposto di misurare la distanza percorsa. Enorme. Sì, la Cina è cambiata tantissimo in questi dieci anni. Non ce ne siamo resi conto abbastanza. Forse anche perché questo Paese si è chiuso all’informazione, ha eretto barriere più alte che ostacolano la circolazione di notizie e di idee nei due sensi. Loro subiscono la censura a casa propria, ma anche noi abbiamo sofferto inconsapevolmente di una certa rarefazione delle informazioni.

L’inquinamento in ritirata, è una cosa fantastica. I miei cinque giorni di cielo azzurro potrebbero essere una coincidenza dovuta a una meteo particolarmente fortunata, dei venti benefici e dalla direzione giusta che spazzano via lo smog. Ma luglio è un mese difficile, perché la temperatura sale molto, ricordo delle estati opprimenti, insopportabili, con l’afa e l’inquinamento che si fondevano in una miscela tossica. Fece eccezione l’estate 2008 per via dei Giochi olimpici: un evento-svolta, che doveva consacrare il nuovo status internazionale della superpotenza cinese agli occhi del mondo intero. Per non turbare in alcun modo quella celebrazione le autorità – allora era presidente Hu Jintao – presero delle misure più che drastiche, draconiane: molte settimane prima dell’apertura dei Giochi chiusero tutte le fabbriche in un vasto perimetro urbano e anche nella cerchia della periferia allargata; le automobili private vennero messe al bando o soggette a pesanti limitazioni; molti uffici pubblici mandarono in vacanza forzata una parte del personale per ridurre la popolazione residente e quindi i consumi energetici.

Tutto questo armamentario si rivelò efficace: se fermi l’economia abbatti l’inquinamento. Ma dieci anni dopo, tanti amici cinesi e stranieri che risiedono a Pechino mi confermano una nuova realtà. Non è più soltanto in occasione di grandi eventi internazionali che scatta l’operazione «cieli azzurri». L’inquinamento è davvero in diminuzione. Fantastica novità davvero, che dieci anni fa non mi sarei aspettato: non in tempi così rapidi. D’altronde è un caso da manuale in cui i metodi di un regime autoritario «funzionano». 

Un caro amico cinese – in questo mio diario eviterò di citare nomi, capirete perché – mi racconta la sua versione personale. È un piccolo imprenditore, fa produzione e manutenzione di pannelli solari. È dunque un’attività ambientalista come poche. Però, siccome viene catalogata come una «fabbrica», anche la sua azienda è stata colpita dall’editto governativo: ha dovuto spostarsi molto lontano dalla capitale. Lui obietta che così facendo il governo sta semplicemente trasferendo l’inquinamento da una regione all’altra. Però la sensazione è che molte cose si stiano muovendo nella direzione giusta. A livello aneddotico c’è l’invasione di Tesla e altre auto elettriche per le strade di Pechino, incentivata dalla «targa verde» che le esime dai turni (le altre automobili non possono circolare in certi giorni della settimana, a rotazione). Niente gilet gialli per protestare contro queste misure, per le strade della capitale cinese! A livello macro: la Cina attraverso le sole fonti rinnovabili produce ormai più elettricità pulita di quanta la Germania genera con tutte le fonti, energie fossili comprese.

Il balzo avanti della Cina in questo decennio è ancora più spettacolare in un altro campo: la padronanza delle tecnologie digitali. Mi sono sentito un troglodita, entrando nei negozi con il mio piccolo pezzetto di plastica: la carta di credito è preistoria, è pateticamente superata. Ormai il cinese medio usa una sola app dello smartphone, per esempio associata alla messaggeria Weixin (detta in inglese WeChat, sostituisce il nostro Whatsapp), per una serie infinita di funzioni della sua vita quotidiana. Al momento di pagare, in un negozio o ristorante, ma anche al posteggiatore e in molti servizi pubblici come i trasporti, basta aprire lo schermo di Weixin con il QR, il crittogramma o codice a barre bidimensionale. Quel codice viene visto dal lettore ottico dell’esercente e autorizza il pagamento. Si stima che il volume di pagamenti su smartphone in Cina sia il centuplo che negli Stati Uniti. Il centuplo, sì. Quando io lasciai Pechino eravamo ancora nella fase della «rincorsa», oggi l’allievo ha superato il maestro. Per molti aspetti il futuro è la Cina di oggi, noi siamo il passato.

Il balzo avanti nella modernità, se unito al nazionalismo in ascesa, mi riserva altre sorprese. Nella «mia» Cina di dieci anni fa era uno status symbol del giovane ceto medioalto urbano andare a fare la spesa negli ipermercati Carrefour o da Ikea: un modo per omologarsi all’Occidente e un segnale di esterofilia nei consumi, per distinguersi dal popolo della provincia e delle campagne. Oggi Carrefour è in difficoltà, soppiantato da tante agili start-up cinesi che offrono la consegna a domicilio e ti salvano dagli ingorghi nel traffico. Dal car-share al commercio online, tutti i precursori della Silicon Valley sono in difficoltà. Amazon chiude i battenti perché sgominata da Alibaba; Uber non regge la concorrenza con gli omologhi cinesi del car-share (o del bike-share). Dietro questa ritirata delle aziende occidentali c’è anche una buona dose di protezionismo, occulto o palese. Ma non tutto si può ridurre all’azione discriminatoria del governo.

Pesa anche la crescita di un tessuto imprenditoriale locale iper-competitivo, di cui gli occidentali hanno sottovalutato le capacità, troppo convinti di essere i primi della classe. Pesa, infine, un nazionalismo spontaneo dei consumatori. Nell’ultimo anno del mio soggiorno a Pechino fece notizia l’inaugurazione del primo Apple Store, i giovani della borghesia chic facevano la fila per entrarci. Oggi gli iPhone Apple sono scivolati al quinto posto tra le marche più vendute. Il «made in China», per molti cinesi è diventato sinonimo di una qualità più avanzata.

È una Pechino molto raffinata e cosmopolita, quella che mi accoglie dentro Page One, la bellissima libreria aperta in un locale dal design elegante. Gli scaffali sono affollati anche da titoli americani e inglesi. Il pubblico che mi circonda, nell’abbigliamento e nei modi, potrebbe essere a Manhattan, a Tribeca o Soho; oppure a Londra Berlino o Parigi. Eppure… La scelta dei titoli in lingua straniera è ricchissima per la letteratura classica moderna e contemporanea; limitatissima invece per la saggistica. Nulla viene venduto che possa risultare lontanamente scomodo o irritante per il regime. È il paradosso di una superpotenza sempre più ricca, sempre più moderna, apertissima al commercio globale, disponibile a generare turismo di massa verso quattro continenti; e tuttavia sempre più chiusa alla circolazione di informazioni e idee.

Che cosa sapete di quel che è accaduto a Hong Kong? La domanda la ripeto a tanti amici cinesi. La risposta è sempre la stessa. «È successo qualcosa a Hong Kong?» Chi s’informa sui media cinesi non ne sa nulla. Silenzio assoluto. Ci sono naturalmente dei modi per aggirare la censura, cercare notizie sui siti stranieri. Bisogna usare dei Vpn, Virtual Private Network, che by-passano le vie d’accesso cinesi a Internet. Però bisogna avere una motivazione particolare. Inoltre, ognuno lo fa a proprio rischio e pericolo. Tra i diplomatici stranieri raccolgo una fitta aneddotica sugli «incidenti tecnici» che possono colpire gli utenti di Vpn.

Io stesso ne fui vittima. Pur viaggiando al seguito di un presidente americano, quindi assistito e protetto da una squadra di esperti telecom venuti dagli Usa per crearci attorno una «bolla extra-territoriale», ebbi una giornata funestata da malware che divorava i miei file sul computer. La vendetta della polizia cinese? Di certo l’uso di Vpn viene monitorato. Anche in questo, loro sono un passo più avanti di noi.

Lo stesso vale nelle tecnologie di «facial recognition»: l’intelligenza artificiale applicata alla biometrica, al servizio della sicurezza. Prevenzione del crimine, anti-terrorismo: la Cina è una specie di Israele al multiplo, su scala continentale, per la quantità di videocamere e la vigilanza 24 ore su 24. Un popolo intero, gli uiguri di religione islamica, è stato la cavia di un gigantesco esperimento di vigilanza digitale: passaporti sequestrati, Internet sigillato, mappatura biometrica e genetica su milioni di persone. Il Grande Fratello come nessun paese occidentale può neppure sognarselo; ben più avanzato anche rispetto ad altri regimi autoritari o democrature come Russia Iran Turchia. La Cina è all’avanguardia e ne va fiera: ufficialmente è così che avrebbe sgominato le infiltrazioni di Al Qaeda e dell’Isis tra gli uiguri, i complotti jihadisti. Ma il Grande Fratello si estende ben oltre lo Xinjiang musulmano. Oltre al Tibet c’è pure la Mongolia Interna, ultima entrata fra le regioni dove il giornalista o il diplomatico straniero non hanno accesso, salvo visti speciali. Un terzo del territorio cinese è off-limits.