Balochistan, riflettori sulla pulizia etnica

Asia – In questa regione di fondamentale importanza strategica e geopolitica per il Pakistan e per il progetto cinese del Cpec si è aperta una frattura irrimediabile fra popolazione baloca e Stato centrale
/ 27.07.2020
di Francesca Marino

Chissà perché viene sempre in mente la voce di Billie Holiday, ogni volta che una nuova notizia o un nuovo rapporto di Amnesty International viene pubblicato. Una voce roca, scura, che canta di «strange fruits», strani frutti che compaiono tra i rami degli alberi. Frutti dalle sembianze umane, a volte spezzati e irriconoscibili. Sono i «frutti» che sempre più spesso, ormai da troppi anni, costeggiano le strade del Balochistan. Frutti che somigliano a cadaveri deturpati, mutilati, resi irriconoscibili e infine abbandonati perché servano da monito al resto della popolazione. Corpi di uomini, di bambini. Di donne e di anziani. Corpi di coloro che hanno osato protestare o che sono semplicemente legati a coloro che hanno imbracciato il fucile, o anche soltanto la penna, per denunciare al mondo il genocidio sistematico e brutale portato avanti dallo stato del Pakistan contro i suoi stessi cittadini. Comincia da lontano, la storia del Balochistan.

Comincia quando Mohammed Ali Jinnah, padre fondatore del Pakistan, tradì gli accordi che egli stesso aveva contribuito a stilare: gli accordi che, all’epoca del ritiro degli inglesi dal fu impero britannico in India, rendevano il Balochistan una nazione indipendente. Pochi mesi dopo, Jinnah occupava la regione costringendo il legittimo sovrano a firmare l’annessione al neonato Pakistan per evitare un ulteriore bagno di sangue. Da allora, ed era il 1948, la regione è stata considerata «più una colonia che una parte del Pakistan» e trattata di conseguenza. Parola di Imran Khan, attuale premier del Pakistan, che dieci anni fa testimoniava a Londra in favore di uno dei leader dell'indipendenza Baloch.

Ci sono state molte rivolte, negli anni, perlopiù soffocate in un bagno di sangue. Quella attuale è forse la più complessa e anche la più cruenta. E' figlia delle politiche e delle strategie brutalmente repressive del presidente Musharraf, ed è divampata nel 2006 dopo l’uccisione del Nawab Mohammad Akbar Khan Bugti: evento descritto da alcuni analisti come l’11 settembre del Balochistan. L’uccisione di Bugti ha segnato un punto di svolta nelle dinamiche in quel momento in atto nella regione e aperto una irrimediabile frattura tra la popolazione locale e lo Stato centrale. Le fiamme mai del tutto sopite del movimento indipendentista, che negli ultimi anni avevano ceduto il posto a una più composta lotta per l'autonomia, si sono rinfocolate. E sono state ulteriormente attizzate dalle politiche messe in atto dai governi «democratici» che sono succeduti a Musharraf.

Le persone scomparse, che all’epoca si contavano sulle dita di una mano, sono diventate negli anni decine di migliaia. Chi sperava difatti che la democrazia avrebbe riportato in Balochistan una parvenza di legalità è stato amaramente disilluso. A implementare su vasta scala la politica del «ill and dump» e a dare completa licenza di uccidere all’esercito pakistano sono stati difatti proprio i governi democratici, che sono di fatto controllati dall'esercito e dai servizi segreti. Nel 2014 sono state ritrovate un certo numero di fosse comuni piene di cadaveri senza nome, riempite in fretta e occultate, e altre si continuano a ritrovare. Le conseguenze dei test nucleari, effettuati all’epoca proprio in Balochistan, continuano a segnare la popolazione tra l’indifferenza generale: hanno avvelenato terra, acqua e aria, e provocato casi di cancro a migliaia e nascita di bambini a animali deformi.

La regione è in mano all'esercito e alle cosiddette «death squads» che operano per suo nome e conto: squadroni di criminali comuni e mafiosi, che non soltanto contribuiscono a instaurare il terrore ma fungono anche da addestratori e coordinatori per i vari gruppi jihadi che Islamabad ha importato in loco. Quetta, da cui la famosa «Quetta Shura» che dirigeva le operazioni dei talebani, è la capitale del Balochistan. Con i talebani, è stato importato nella regione anche l’Islam integralista con tutte le conseguenze del caso. È stata importata una nuova lingua, l'urdu, e sono state proibite nelle scuole lingua e canzoni e storia Baloch.

Dichiara Bashir Zeb, che comanda il Balochistan Liberation Army resosi protagonista negli ultimi due anni di clamorosi attentati: «Consideriamo la lotta armata una forma di lotta politica. Il nostro movimento trae le sue radici da ben radicate convinzioni politiche, e si esplica al momento con questi mezzi soltanto perché ogni forma di lotta pacifica ci è stata proibito e le armi sono diventate l'unica scelta possibile».

Perfino Imran Khan, prima che arrivasse al potere e diventasse uno strumento in mano all’esercito e ai servizi segreti, dichiarava: «Se fossi un Baloch, prenderei anch’io in mano le armi. Per difendere i diritti della mia gente, perché non avrei accesso alla politica, visto che qui le elezioni sono pesantemente truccate». Negli anni una nuova generazione di giovani istruiti e di buona famiglia si è fatta largo, una generazione di attivisti sociali e per i diritti umani, ma anche una generazione di giovani furibondi per il sistematico sfruttamento delle risorse locali e per la repressione feroce di cui la regione è vittima.

La «nuova» rivolta non è più diretta soltanto contro i rappresentanti dello Stato ma anche e soprattutto contro la vera e propria invasione cinese di stampo colonialista che va sotto il nome di Cpec, China Pakistan Economic Corridor. Il Cpec, qualora ce ne fosse stato bisogno, ha ulteriormente inasprito una situazione già difficile. E la popolazione locale rischia di essere cancellata dai cinesi che operano nemmeno tanto velatamente alle spalle di Islamabad, dai servizi segreti, dall'esercito, dalle «death squads», dai talebani. Rischia di essere cancellata dall'indifferenza di un occidente perfettamente consapevole e tuttavia restio a prendere posizione.

Una popolazione bollata come «terrorista» perché non gli è rimasta più nessuna opzione, perché chi non combatte muore in ogni caso. Di stenti, di malattia, per mano di qualcuno. Islamabad accusa i Baloch di essere «agenti stranieri», la stessa accusa mossa a tutti i gruppi che protestano contro gli omicidi extragiudiziali, le sparizioni forzate, le torture a giornalisti e blogger, i licenziamenti di intellettuali e illustri professori universitari. Tre quarti del paese, grosso modo, secondo l’esercito è finanziata e gestita dai famosi «agenti stranieri». I fedelissimi, numeri alla mano, sono in pratica soltanto jihadi di  varia natura e membri dell’esercito. L’occidente lo sa, ma continua a vendere armi e dare manforte al Pakistan in cambio del sostegno al vergognoso «processo di pace» in Afghanistan. Nessuno è in grado di dire davvero cosa succederà nei prossimi anni, o anche solo nei prossimi mesi.

In Balochistan giocano da anni fin troppi giocatori: lo Stato, i capi tribali, gli squadristi pagati dall'intelligence, le forze armate, i cinesi, i gruppi di guerriglia. E poi ancora, i talebani importati nella regione dall'esercito, i pashtun che sono anche loro in rivolta contro Islamabad, i vari gruppi terroristici di matrice integralista e jihadi considerati dalla suddetta Islamabad assetti più o meno strategici. La regione è di fondamentale importanza strategica e geopolitca, per Islamabad, per il progetto cinese del Cpec. Ma è importante anche per molti altri giocatori che nella regione giocano ai nuovi avatar del buon vecchio «Grande Gioco». Giocano tutti, nessuno escluso, è bene ricordarlo, sulla pelle e sulla vita della popolazione locale. Che rischia intanto di diventare un esercito di fantasmi.