Autodeterminazione contro integrità territoriale

Il conflitto che sconvolge l’Ucraina ripropone un caratteristico paradosso delle relazioni internazionali
/ 09.05.2022
di Alfredo Venturi

Oltre ad atterrire il mondo per i suoi imperscrutabili sviluppi, il conflitto ucraino ripropone un caratteristico paradosso delle relazioni internazionali, il palese contrasto fra due principi che sono entrambi considerati sacri. Da una parte l’inviolabilità delle frontiere, dall’altra l’autodeterminazione dei popoli. Kiev accusa Mosca di avere calpestato il primo invadendo uno stato sovrano, Mosca ribatte che Kiev non rispetta il secondo negando ai russofoni del Donbass il diritto di scegliere il loro destino. La contraddizione non potrebbe essere più evidente: è chiaro che i due principi sono spesso destinati – a seconda delle circostanze storiche, etniche, linguistiche – all’inconciliabilità. E dunque non è raro che facciano cortocircuito.

Questa contraddizione non soltanto si è manifestata attraverso eventi come quello che stiamo vivendo, ma si annida negli stessi testi sui quali la comunità internazionale fonda i suoi tentativi di garantire un minimo di armonia fra i rissosi stati del pianeta. Prendiamo la Carta delle Nazioni Unite. Nell’articolo 1 invita i Paesi membri a «sviluppare… relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-determinazione dei popoli». Nell’articolo 2 proclama che «gli Stati devono astenersi… dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite». Poiché l’Onu è un’organizzazione di stati, ovviamente attentissimi alla difesa delle loro prerogative, inevitabilmente nelle sue attività e nei suoi documenti tende a prevalere, nonostante la solenne dichiarazione del primo articolo, il principio dell’integrità territoriale.

La stessa contraddizione è iscritta a chiare lettere nell’Atto finale di Helsinki del 1975, il documento sul quale si fonda l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce). Il punto 3 e il punto 9 registrano rispettivamente la sacralità dell’autodeterminazione e quella delle frontiere intangibili. È interessante notare come durante la lunga trattativa che portò all’Atto una chiara enunciazione di quest’ultimo principio fosse caldeggiata dall’Unione sovietica, che voleva consolidare con il riconoscimento internazionale i guadagni territoriali conseguiti alla seconda guerra mondiale. Nel caso ucraino la Russia, che dell’Urss ha raccolto l’ingombrante eredità, ha mutato il punto di vista, puntando le sue carte sull’autodeterminazione.

Nei suoi quattordici punti il presidente americano Woodrow Wilson cercò di inquadrare, nell’ultima fase della prima guerra mondiale, i fondamenti di un futuro pacifico. In quel caso si trattava di risistemare il mondo dopo il crollo dei quattro imperi – il russo, il germanico, l’austro-ungarico e quello ottomano – dunque non si parlava certo di frontiere inviolabili ma piuttosto della creazione di stati nazionali secondo il principio sancito dalla Rivoluzione francese. Per questo l’ottavo punto prevedeva la restituzione alla Francia dell’Alsazia e della Lorena che la Germania aveva annesso dopo la guerra franco-prussiana del 1870-71; il nono la sistemazione delle frontiere italiane «secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili»; mentre il tredicesimo auspicava una Polonia indipendente che comprendesse tutti i polacchi.In realtà la visione del presidente americano, animata com’era dalla necessità di non infierire sui vinti per evitare pericolosi sentimenti di rivalsa come quelli che puntualmente si verificheranno in Germania, non seppero convincere gli altri delegati alla conferenza di Versailles. Anche perché Wilson, malato di spagnola, non poté difendere personalmente i suoi quattordici punti, che non a caso il primo ministro francese Georges Clemenceau, intenzionato a punire duramente i tedeschi sconfitti, liquidò con una celebre battuta: «Al buon Dio ne bastarono dieci…». Prevalsero sulla logica moderata di Wilson gli appetiti e i sentimenti vendicativi dei vincitori: e per finire il Congresso degli Stati Uniti negò la ratifica alla partecipazione americana alla Società delle nazioni, che fu fondata secondo la lettera del quattordicesimo punto. Il Nobel per la pace che gli fu assegnato nel 1919 attenuò un poco la profonda frustrazione dell’uomo che si era illuso di risanare il mondo.

Negli anni Cinquanta ci provarono India e Cina a gettare le basi di una convivenza armonica fra le nazioni. Lo fecero varando con un trattato di amicizia i Panchsheel, i cinque principi che avrebbero dovuto garantire la pace. Nell’ordine: reciproco rispetto dell’integrità territoriale, non aggressione, non ingerenza negli affari interni, eguaglianza e cooperazione, coesistenza pacifica nonostante i diversi sistemi politici. Come si vede mancò in questo caso un riferimento esplicito all’autodeterminazione. Purtroppo i Panchsheel, che pure ebbero una certa risonanza internazionale, non impedirono la guerra sino-indiana del 1962 né i successivi incidenti attorno ai confini del Tibet.

Nel terremoto geopolitico seguito agli eventi del 1989-90, mentre la Jugoslavia collassava frammentandosi in sei stati nazionali, la Cecoslovacchia offriva una prova di composizione pacifica del dilemma popolo-frontiere. Il parlamento di Praga votò la divisione del paese. Fu così che il 1 gennaio 1993 mutò una volta ancora la carta d’Europa con la comparsa della Repubblica Ceca e della Slovacchia, due paesi altrettanto amici, a parte qualche malumore per il mancato avallo referendario della separazione, di quando costituivano un unico Stato, affratellati fra l’altro dalla comune appartenenza all’Unione europea.

Se si cerca di risolvere il problema senza modificare le frontiere non resta che la strada delle ampie autonomie. Come quelle, per esempio, che la Gran Bretagna ha concesso alla Scozia. Ma non tutti gli scozzesi si accontentano delle autonomie, in particolare detestano l’idea della «concessione»; moltissimi di loro nutrono storici risentimenti anti-inglesi e guardano a Bruxelles piuttosto che a Londra. Si è fatto ricorso al referendum dando al popolo stesso la possibilità di far sentire la sua voce: gli indipendentisti lo hanno perduto ma dopo la Brexit, forti dei successi elettorali di Nicola Sturgeon e del partito nazionale scozzese di cui è animatrice, sono tornati alla carica chiedendo una nuova consultazione. E così una volta ancora il cortocircuito è pronto a scattare.