Per parlare della caduta ingloriosa di Julian Assange, consegnato dall’Ambasciata dell’Ecuador alla giustizia britannica perché esamini le richieste di estradizione venute da Svezia e Stati Uniti, occorre partire da una notizia più recente: la consegna del Rapporto Mueller, la versione finale dell’indagine sul Russiagate. Il nesso è evidente da sempre – poiché l’ipotesi di collusione Trump-Putin ruotava attorno al ruolo di WikiLeaks – ma lo è ancora di più dopo la lettura «semi-integrale» di quelle conclusioni. In un certo senso si potrebbe dire che Assange ha aiutato Trump due volte: prima ha contribuito alla sconfitta di Hillary Clinton nel 2016, poi ha creato l’alibi perfetto contro il reato.
Comincio dunque dalla consegna delle carte sul Russiagate, avvenuta il 18 aprile dal segretario alla Giustizia William Barr al Congresso di Washington.
Più che un’assoluzione in quel documento di 400 pagine c’è una non colpevolezza per mancanza di prove. Il Congresso è libero di riaprire le indagini su Donald Trump e il Russiagate, per verificare «l’ostruzione della giustizia», reato da impeachment. È questa la principale conclusione del Rapporto Mueller, finalmente consegnato al Parlamento americano, sia pure in una versione censurata da molti omissis. Le formule usate dal superinquirente (Special Counsel) Robert Mueller sono meno innocentiste della sintesi che ne aveva fatto il 23 marzo il ministro di Giustizia, William Barr. La palla è nel campo dei democratici, che in passato si erano divisi sull’opportunità di perseguire l’interdizione del presidente.
Niente collusione con Putin: nei 22 mesi della sua indagine, l’autorevole e indipendente Mueller (un magistrato nonché un ex capo dell’Fbi) ha raccolto le prove di numerosi contatti tra lo staff di campagna elettorale di Trump e il governo russo nel 2016. Il fatto che ci fosse una convergenza di sforzi, per far vincere il candidato repubblicano contro Hillary Clinton, non basta però a configurare il reato di collusione con una potenza straniera, che sarebbe da impeachment. È mancato un «coordinamento», un do ut des, fatto di accordi specifici con i russi per violare la legge.
È qui che il ruolo di Assange risulta decisivo. WikiLeaks si rivela cruciale come scudo legale per proteggere Trump dall’accusa di collusione. Il reato di violazione della banca dati informatica del partito democratico fu commesso dagli hacker russi. WikiLeaks fu l’anello di collegamento che in seguito passò le email rubate ai media americani e ai repubblicani. Dunque Assange è l’intermediario non incriminabile grazie al quale manca il contatto diretto fra la campagna Trump e gli hacker russi colpevoli di reato.
La conclusione di Mueller è sibillina, o pilatesca, su un altro tema. «Se avessimo fiducia che il presidente non commise ostruzione alla giustizia, lo diremmo. Non siamo in grado di arrivare a questa conclusione». Questa formulazione suona più come una dichiarazione di «non innocenza», che di non colpevolezza. In altri passaggi del Rapporto, vengono enumerati i numerosi atti con cui Trump può avere sabotato le indagini. Il più grave rimane il licenziamento dell’ex capo dell’Fbi James Comey. Poi ci furono le pressioni sul Dipartimento di Giustizia perché licenziasse lo stesso Mueller. La cui nomina Trump aveva commentato esclamando: «È la fine della mia presidenza, sono fottuto». Resta però nel Rapporto il dubbio che Trump sia rimasto dentro le prerogative costituzionali del potere presidenziale. La prima cosa che la Camera a maggioranza democratica farà, è convocare Mueller per sentire la sua versione dei fatti e del Rapporto finale.
Questo consentirà di aggirare almeno in parte i tanti «omissis», di avere un’idea dei contenuti secretati dal ministro di Giustizia. La Camera, che ha la prerogativa-dovere costituzionale di vigilare sull’esecutivo, ha già aperto altre indagini parallele, per esempio sulle tasse di Trump. Ma i reati fiscali non sono da impeachment. Resta dunque da decidere se andare a fondo sul tema dell’ostruzione alla giustizia, quello che Mueller stesso definisce come «uso corrotto del potere esecutivo». Qui subentrano calcoli elettorali. La sinistra radicale – con l’eccezione di Bernie Sanders – ha sempre invocato l’impeachment. I moderati pensano che trasformare la Camera in un tribunale permanente sia un errore strategico, che darebbe a Trump il ruolo della vittima e scontenterebbe quegli elettori già stufi del Russiagate. Resta sempre l’obiezione sui numeri al Senato: senza i due terzi della Camera alta (a maggioranza repubblicana) l’impeachment non andrebbe in porto.
Trump ha celebrato: «Mi sto godendo una bella giornata. Niente collusione, niente ostruzione. Questa indagine-truffa non dovrebbe mai più accadere ai danni di un presidente. A chi mi odia e ai democratici della sinistra radicale: il gioco è finito». È convinto che il Russiagate lo aiuterà in campagna elettorale. Nei comizi tornerà a parlare di «caccia alle streghe», attaccando i «media disonesti». I sondaggi negli ultimi due anni hanno confermato che il Russiagate non ha mai fatto veramente breccia nella base repubblicana, l’unica che a lui interessa riportare compatta alle urne. Resta il fatto che di tutte le accuse la collusione con una potenza straniera sarebbe stata la più grave, ma WikiLeaks l’ha resa impraticabile.
Da eroe della libertà d’informazione a «sicario digitale» di Putin: tra questi due estremi si colloca la parabola americana di Julian Assange.
Lo stesso itinerario lo ha portato in pochi anni ad essere difeso dalla sinistra, poi esaltato da Donald Trump e dalla televisione di destra Fox News. L’exploit finale che gli è stato attribuito – la massiccia campagna anti-Hillary – potrebbe avere portato Trump alla Casa Bianca. Il suo procedimento di estradizione è stato originato da un capo d’accusa della magistratura americana, datato 6 marzo 2018. Il reato per il quale Assange è stato incriminato negli Stati Uniti 13 mesi fa si definisce «Cospirazione per violare i contenuti di un computer». Attenzione: non si riferisce al Russiagate ma ad un evento precedente, il furto di dati da parte della soldatessa Chelsea Manning, aiutata da Assange, nei sistemi informatici del Pentagono. Si tratta di un crimine di natura penale e può valere una condanna fino a cinque anni di carcere. È un’imputazione molto più lieve rispetto a quella di spionaggio, reato che gli era stato contestato in precedenza, ma che poi è caduto nella conclusione dell’istruttoria.
Assange al momento non è incriminato per la violazione dei sistemi informatici del partito democratico Usa durante la campagna presidenziale del 2016, quindi la diffusione pubblica di migliaia di email riferite a Hillary Clinton con l’intento di danneggiarne l’immagine. All’origine di quel saccheggio di comunicazioni private ci furono degli hacker russi, che l’intelligence e la magistratura Usa hanno ricondotto al governo di Mosca. Assange ha sempre negato di averle ricevute da loro. Durante la campagna del 2016, quando cominciò a circolare la voce che sarebbero uscite quelle email, Trump elogiò sia i russi sia WikiLeaks, incoraggiandoli a rendere pubblico quel materiale. Da quel momento il ribaltamento di giudizi su Assange fu spettacolare. Per la sinistra americana è divenuto un nemico; per Trump è stato un benefattore.
Il clima attorno a lui è molto diverso rispetto al 2010, anno che segnò l’apice della sua popolarità mondiale. Uscirono allora ondate di materiali top secret, a cominciare dalla documentazione su stragi di civili commesse dai militari americani in Iraq, e altri abusi. Via via che le rivelazioni si susseguivano, alcune contribuirono anche a innescare le primavere arabe. Risale a quel periodo il ruolo-chiave di Chelsea Manning, la militare che ebbe accesso a numerosi siti governativi Usa (condannata a 35 anni di carcere, perdonata dopo sette anni da Barack Obama). Più tardi ci fu anche un’alleanza tra Assange ed Edward Snowden. Di quest’ultimo non passò inosservata la fuga attraverso Hong Kong – sotto l’ala protettiva del regime cinese – con rifugio finale a Mosca. Lo stesso Assange, intervistato sui suoi rapporti con Putin, disse che non aveva alcuna ragione per rifiutare informazioni fornite dai russi. Prima ancora di arrivare al colpo finale contro Hillary, nella sinistra americana e sui media liberal si erano accumulati i sospetti. Col passare degli anni infatti risultava evidente che le rivelazioni di WikiLeaks andavano a colpire gli Stati Uniti o i loro alleati; mai la Russia né la Cina.
Il divorzio finale tra la sinistra e Assange nel 2016 avviene non solo per il risentimento verso colui che può aver contribuito ad affondare la candidata democratica; ma anche dalla constatazione di un’asimmetrìa costante. Mai nulla è uscito da WikiLeaks che potesse danneggiare Trump o il partito repubblicano. Non una sola violazione di sistemi informatici da parte di Assange, ha colpito le email di questo presidente, dei suoi familiari, della sua azienda. Di recente Trump ha preso le distanze: «Non so nulla su WikiLeaks. Non è il mio genere di cose». Il suo linguaggio in campagna elettorale era diverso.
Sia la sinistra politica, sia i media progressisti, non hanno mai veramente riflettuto sull’abbaglio preso nei confronti di WikiLeaks. È parte di quel feticismo tecnologico, venerazione acritica del presunto Progresso, che ha seminato tanti altri danni. Per esempio le illusioni sulle Primavere arabe, sul ruolo dei social media, esaltati senza capire che tutte le innovazioni tecnologiche sono neutre: e i regimi autoritari imparano molto presto a servirsene.