Argentina: vincere è la regola

Cono Sur – In vista delle presidenziali di ottobre l’antiperonista Macri si ripresenta insieme a un vice iperperonista, mentre Cristina Kirchner sceglie di candidarsi alla vicepresidenza accanto all’ex nemico Alberto Fernandez – 1. parte
/ 12.08.2019
di Angela Nocioni

Non c’è ossigeno lontano dal pianeta peronista a Buenos Aires. Nessuna creatura politica, nemmeno la più vitale, riesce a sopravvivere fuori dal peronismo in Argentina. 

Ad ottobre si celebrano le elezioni presidenziali e persino il capo del governo Mauricio Macri – accolto al suo debutto nell’Occidente antistatalista come il tanto agognato antiperonista finalmente impostosi nella terra del generale Peròn – per sperare di confermare il suo mandato, cos’ha fatto? S’è preso come vice, per presentarsi con lui in tandem agli elettori, Miguel Ángel Pichetto, una vecchia volpe peronista, il fedelissimo dell’ex presidente Cristina Kirchner, la super peronista vera sfidante di Macri. Per sperare di vincere il liberista ha imbarcato un vice che più peronista non si può.

Pichetto è il senatore che per anni si è prodigato con successo a trasformare in operazioni parlamentari gli ordini politici di Cristina. Nessuno in Argentina si scandalizza per aver visto Pinchetto saltare il fosso e schierarsi con gli ex nemici. Nessuno, allo stesso tempo, gli potrà rimproverare di non esser più peronista. E come potrebbe, se il peronismo ha come caratteristica fondamentale l’adattabilità alle convenienze del momento garantita dal suo essere tutto e il contrario di tutto, camaleontico, cangiante, capace di assumere senza sforzo le dimensioni e l’aspetto dell’involucro che lo contiene?

D’altra parte Cristina per tentare di scalzare Macri dalla Casa Rosada non si presenta forse, forzando ogni prassi istituzionale, come vice del candidato presidente Alberto Fernandez, suo ex braccio destro, ex capo di gabinetto del suo governo e di quello del suo defunto marito Nestor, poi diventato nemico di entrambi? Peronista anche Fernandez. E lui, da candidato presidente con una vice che in realtà è il suo capo, non s’è forse presentato appena dopo la nomina in coppia con lei, a deporre contro di lei in una causa penale per corruzione? 

Le categorie di comune ragionevolezza saltano in aria nel caleidoscopio politico argentino, dove tutto si muove secondo le regole assai fluide dell’opportunità del momento. Perché la regola fondamentale del manicomio politico locale è che non esiste la necessità della coerenza né della lealtà. Ci si misura solo sui risultati. La politica gronda di retorica ideologica di appartenenza, eppure ciò che conta per vincere è solo l’efficacia, costi le giravolte che costi. Ciò consente al peronismo da decenni di tenere tutti dentro il suo carrozzone: militari filonazi ed ex guerriglieri guevaristi, liberisti ed antiliberisti, statalisti e attivisti pro libero mercato, addirittura abortisti ed antiabortisti. Spesso gli uni contro gli altri armati. Senza che né gli uni né gli altri possano rimproverare al nemico interno di aver abbandonato la matrice iniziale che è inafferrabile, polimorfa, mitica.

E il bello è che, nonostante in Argentina non si misuri l’affidabilità politica delle persone sulla loro capacità di rimanere leali a qualcosa o a qualcuno, l’insulto politico più comune è «traditore».

Il caso recente esemplare di questa tradizione locale è la rocambolesca vicenda che lega tra loro d’odio viscerale due pezzi da novanta del partito giustizialista, la casa peronista: l’ex ministro del Commercio Guillermo Moreno e l’ex ministro dell’Economia Axel Kicillof.

Quando, in una sera di qualche anno fa, al semaforo rosso di Plaza de Mayo un tassista ha urlato dal finestrino «Traidor», prima di sparire nel traffico sotto lo sguardo da galera di «Acciaio» Cali – professione gorilla, re della kickboxing arruolato come guardia del corpo dall’ex ministro del Commercio di Buenos Aires – Guillermo Moreno ha dovuto ingoiare sul marciapiede due pasticche rosa per dissolvere la rabbia. «Aliviol», due grammi di ibruprofene argentino, la sua unica droga, il suo solo sollievo.

Eh sì, perché Moreno, ex uomo forte di Cristina Kirchner, incubo di tutti gli investitori esteri in Argentina e temutissimo ministro con una collezione di nomignoli acidissimi (il Pistola, la Bestia, il Selvaggio, il Pazzo) ha avuto con la coppia presidenziale, Nestor prima e Cristina poi, la fedeltà di un labrador. 

È stato per l’intero decennio d’oro kirchnerista (2003-2013) l’uomo dei panni sporchi e il simbolo dei modi spicci dei due patagonici al governo. Ha liquidato con un «putos de mierda!» la delegazione della impresa petrolifera Shell. Ha causato una crisi diplomatica nel 2010 per insulti all’ambasciatore brasiliano Enio Cordeiro, è stato colto da una diretta tv mentre con l’indice e il medio della mano destra faceva il gesto del «ti taglio la testa» all’allora ministro dell’Economia Martin Lousteau che proprio non poteva soffrire. Ma mai ha tradito. 

E all’improvviso lui, il ministro più leale del pianeta, l’unico peronista a non aver cambiato mai corrente in vita sua, è stato cacciato. L’ha saputo da un amico compassionevole quando tutto il governo di Cristina Kirchner già sapeva. La Regina Cristina l’ha mollato senza una parola. 

Un licenziamento offensivo e impensabile per l’ex padrone dell’import export di Buenos Aires, il fustigatore degli imprenditori, lo sceriffo che ha tenuto in mano l’economia argentina dell’era kirchnerista mentre ai nuovi arrivati veniva bisbigliato: «No te mètas nunca contra Moreno».

Consiglio legittimo, considerata l’abitudine di convocare le riunioni difficili nel suo studio di Diagonal sur, nella city di Buenos Aires, con il revolver poggiato sulla scrivania.

Da quell’ufficio sono stati visti uscire, increduli più che offesi, manager di multinazionali trattati come gangster dal ministro. Ed anche, entusiasti, innumerevoli uomini d’affari locali benedetti dalle commesse di Stato e imbarcati in mitologiche missioni all’estero per portare «el ejemplo argentino en el mundo». In Vietnam, in Corea, in Azerbaigian. Comitive di solito non sotto le trecento persone. 

In Angola, per mostrare dal vero le meraviglie dell’export argentino, il ministro andò con 359 persone al seguito, più una nave carica di bovini vivi arrivati stremati a destinazione sotto gli occhi increduli degli ospiti africani. «El arca de Moreno» fu battezzata la sua trovata.

Moreno è precipitato in disgrazia dopo la sconfitta della presidente alle elezioni legislative di metà mandato che segnarono la sua fase calante e spalancarono le porte all’ascesa dell’attuale presidente Mauricio Macri. 

La sua testa fu chiesta e ottenuta dalla stella luminosa dell’ultima fase kirchnerista, quello che poi divenne il super ministro dell’Economia, lo charmosissimo Axel Kicillof, ex ragazzino prodigio dell’università di economia di Buenos Aires, fino a quel momento famoso solo per una foto in costume su «Vanity fair». 

Lui e Moreno si odiano appassionatamente dal momento in cui Kicillof passò dai pomeriggi goliardici con l’amico Massimo Kirchner, figlio della ex presidente, al ruolo di consigliere personale di Cristina. «La tengo hipnotizada» si vantava al debutto con gli amici. Viene dalla militanza di sinistra del gruppo universitario marxista eterodosso «Tontos pero no tanto». All’economia lo spinse suo nonno, rabbino, che aveva imparato da solo il tedesco per poter leggere Marx senza traduzione. Kicillof è stato la mente prima, e il capricciosissimo esecutore poi, della nazionalizzione della industria del petrolio argentina, l’Ypf, che fino al suo arrivo era per buona parte della Repsol. Mentre l’intrepido Axel Kicillof, comodamente affacciato sul Rio de la Plata dall’ultimo piano del grattacielo Ypf di Puerto Madero, studiava la cacciata della Repsol, il povero Moreno correva su e giù con gli scagnozzi di «Acciaio» per i marciapiedi della city di Buenos Aires, il Microcentro, per multare i cambiavalute che vendevano in nero il dollaro, a quei tempi ancora legato a un valore fittizio dal cambio fisso. Il governo Kirchner è stato ostinato nell’illusionismo del cambio fisso e lui, il fedele scudiero Moreno, si doveva occupare di scacciare i mercanti dal tempio che vendevano per strada i dollari al loro reale valore di mercato.

Quando Cristina finì sull’orlo del precipizio perché la vendita a credito e a rate, vecchia abitudine del consumo argentino, era complicata dalle percentuali che le carte di credito internazionali fanno pagare ai negozianti, fu sempre Moreno a tentare di salvarla inventandosi la «Supercard», la carta di credito «peronista y popular» che avrebbe dovuto sbaragliare la concorrenza. La Supercard fece una fine ingloriosa nel giro di una settimana. 

Per mantenere in piedi lo scenario di cartapesta della rinascita economica argentina che ha sorretto per due mandati presidenziali Cristina, Moreno riuscì a fissare d’imperio un tasso d’inflazione fittizio e a sanzionare con una multa di 50.000 euro i tecnici dell’istituto di ricerca privato Finsoport che lo contestarono. Si guadagnò una denuncia per «abuso di potere».

Il suo è un curriculum personale senza una elezione vinta, senza un momento di gloria politica autonomo. È la storia di un uomo di strada che diventa uomo di potere militando nell’obbedienza. Moreno ha uscite drammatiche da macho di periferia, si fa accusare di avere modi «poco urbani», ma non si è messo un centesimo in tasca, per quel che si sa. Non nelle sue, perlomeno. È stato passato sotto lo scanner di investigatori pubblici e privati dei tanti nemici che si è fatto fuori e dentro l’Argentina. E dopo anni trascorsi a far da mastino alla guardia degli affari nazionali, petrodollari venezuelani compresi, nessuno è riuscito a scovargli un dollaro fuori posto. Anche il perfido Kicillof, che si è sempre vantato di averlo sconfitto «por goleada», gli riconosce la fama di incorruttibile. Immaginarsi quanto ha patito quando è stato liquidato da Cristina Kirchner senza battere ciglio e s’è sentito trattato come un «traidor».

Nel 2005 fu l’allora presidente Nestor Kirchner ad arruolarlo. Gli piaceva l’idea che un peronista integralista lo seguisse sulla strada del «più Stato, meno mercato». Cristina lo ricevette in eredità come un bene di famiglia. Finché ha potuto l’ha anche protetto.

Fu Moreno ad uscire su Plaza de Mayo come un carrarmato a difendere Cristina Kirchner quando la lobby dell’agrobusiness, ricca, influente e legata a una corrente peronista avversa a quella della presidente, non gradì la nuova tassa sui profitti dell’export agricolo e dichiarò guerra al governo. Successe che nel marzo del 2008 Cristina Kirchner firmò un decreto per portare dal 35% al 47% le imposte sull’esportazione del grano e di altri prodotti agricoli, tra cui la soia. Le tasse sull’export sono tuttora le principali fonti d’entrata di denaro per le casse dello Stato. In Argentina, in realtà, allora come ora, si produceva molto poco, ma il denaro era tornato a circolare dopo la grande crisi del Natale 2001 e creava la piacevole sensazione della rinascita dopo la crisi. Era, ed è tuttora, denaro che arriva dall’agrobusiness.

L’export agricolo era a quell’epoca miracolato dall’aumento generale dei prezzi di miglio e soia sul mercato internazionale e il governo aveva deciso per questo di imporre nuove tasse su quei profitti. Agricoltori e allevatori alzarono le barricate. Cristina fu sul punto di essere travolta in un corpo a corpo fatto di blocchi stradali, scontri di piazza e minacce di sospendere i rifornimenti ai supermercati. 

Moreno uscì in plaza de Mayo, spalleggiato da «Acciaio» Cali, e lanciò contro gli imprenditori agricoli che chiamò da quel giorno «la vieja oligarquia agraria fascista», i suoi piqueteros di fiducia, i disoccupati organizzati delle fazioni peroniste filogovernative.

Gli agricoltori però avevano copiato dai piqueteros le tecniche di lotta: blocchi stradali e improvvise barricate sorgevano qua e là, prendevano fuoco appena arrivavano le telecamere delle tv. Cristina fu sull’orlo del precipizio. Rispose facendo quello che mai Nestor Kirchner aveva osato fare: spedì la polizia a sgomberare la piazza. La prova di forza durò cento giorni. Cristina alla fine ce la fece. Moreno fu glorificato come il peronista di quartiere capace di trionfare sulla potente Federazione agraria argentina. 

A differenza di molti dei suoi scagnozzi e di tutti i suoi colleghi di governo, non si è mai trasferito in un quartiere per ricchi nelle esclusive «zone nord» di altrettante «zone nord» che spuntano nei quartieri privati, alla moda nordamericana, nella Buenos Aires dei country club. Lui vive da sempre nella vecchia casa di Constituciòn, quartiere di cui si parla molto nelle pagine di cronaca nera argentina e quasi mai per ragioni positive. Un reticolo di palazzi popolari. 

Quando il 18 marzo del 2013, prima dell’investitura papale, Jorge Bergoglio ricevette la presidente Kirchner nella residenza di Santa Marta in Vaticano, all’uscita Cristina, raggiante, raccontò a uno dei membri della sua delegazione che il papa le aveva chiesto notizie di due persone soltanto: Julián Domínguez, allora presidente della Camera dei deputati e Guillermo Moreno. L’attenzione del papa per Domínguez, quadro cattolico del peronismo, si spiega da sola. Quella per Moreno rimanda all’universo politico della Buenos Aires degli anni Settanta, quando l’allora padre Bergoglio, gesuita già influente, ebbe contatti con il gruppo cattolico peronista Guardia de Hierro. Lì militava la cattolicissima Marta Cascales, moglie di Moreno. È stata lei, la cattolicissima moglie, a convincere il ministro disarcionato da Cristina a non sbattere la porta mentre i maligni tutt’intorno sussurravano: «Non l’ha salvato nemmeno il papa». «El Pistola» furioso, armato solo di ibruprofene, aveva chiesto di essere mandato in ambasciata in Angola.