Autunno australe caldo in Argentina. Rotta la tregua sindacale con il governo. Non scioperano soltanto i calciatori delle serie minori, che dicono di non ricevere lo stipendio da un anno. Scioperano anche i maestri delle scuole pubbliche. L’anno scolastico è iniziato con due settimane di sciopero degli insegnanti che chiedono miglioramenti ai loro miseri stipendi.
Il governo risponde con un dossier che fotografa il drammatico stato in cui è ridotto il sistema scolastico pubblico argentino, che negli anni Sessanta fu un modello mondiale di educazione pubblica. Il 46,7 per cento degli studenti tra i 16 e 17 anni – campione statisticamente rappresentativo degli alunni delle scuole secondarie pubbliche coinvolti nell’indagine governativa – non comprende un testo semplice, se lo legge non riesce a sintetizzarlo né a spiegare con altre parole che cosa ha letto. Il 70 per cento degli studenti non sa risolvere quesiti matematici elementari.
«Questo è il risultato delle tantissime giornate di sciopero delle scuole pubbliche», accusa il governo. «Questo è il risultato delle condizioni infime in cui ci costringete a lavorare», rispondono i maestri. Fatto è che, stando ai risultati del dossier governativo la cui veridicità non è stata messa finora in discussione dagli scioperanti (ne contestano solo l’uso politico da parte del governo, non i dati riportati) sembrerebbe andata in fumo la gloriosa eredità del sistema scolastico pubblico argentino che consentì laggiù di sconfiggere l’analfabetismo di massa prima che in molte parti di Europa.
Rimangono pochissime punte di eccellenza nel pubblico. Chiunque possa, manda i figli alle scuole private. Ce ne sono di vari livelli e di diverse fasce di costo. Alla pubblica finiscono ormai per andarci solo i poveri. E i poveri sono tanti in Argentina. L’aggravamento delle situazioni di indigenza è innegabile. I dati governativi confermano che ci sono 13 milioni di poveri in un Paese di 42 milioni di persone. Secondo l’ultimo rapporto della Università cattolica argentina, che da anni è la fonte più rispettata per la panoramica sociale del Paese, si è passati dal 29% della fine del 2015, al 33% nel terzo trimestre del 2016.
Nel frattempo l’inflazione vola al punto che le banche non sanno più dove stipare le banconote. Alcuni istituti di credito hanno fatto accordi con compagnie di deposito e trasporto di valori perché si occupino di immagazzinare le enormi quantità di contanti per le quali non c’è più posto.
Nel dicembre del 2016 l’inflazione secondo i dati ufficiali superava il 40%. Il problema principale sono le banconote da 100 pesos. Rappresentano il 70% del contante in circolazione. Ne esiste una quantità enorme in un Paese in cui la metà dell’economia è al nero. I depositi delle banche strabordano di biglietti da 100, che però valgono meno di 7 dollari l’uno. Un problema anche dal punto di vista dei ladri: chi va a rapinare una banca per portarsi a casa una montagna di carta che vale poco?
Per il governo Macri l’autunno appena iniziato è tutto in salita. I grandi settori dell’impiego pubblico, scuole a parte, hanno annunciato mobilitazioni ovunque. Sono già iniziati i blocchi stradali di protesta.
Non si tratta soltanto della protesta per le inevitabili conseguenze sociali di medio periodo della revoca di quasi tutte le sovvenzioni pubbliche ai principali consumi di base garantiti dai governi Kirchner, per esempio al consumo dell’energia elettrica (il liberale Mauricio Macri ha annullato il sussidio costato carissimo alle casse argentine e le bollette sono rincarate fino al 500%). Si tratta soprattutto della rottura politica di un fragile equilibrio concesso l’anno scorso dai potentissimi sindacati peronisti di varie correnti all’allora neopresidente Mauricio Macri, ex presidente del Boca Junior, figlio di un immigrato italiano (Franco Macri, uno dei principali imprenditori dell’America Latina), il primo non peronista arrivato alla presidenza dell’Argentina democratica dopo Raul Alfonsìn, che governò dal 1983 al 1989 e di scioperi generali contro ne contò 13.
Finora a Macri era riuscito molto bene il difficile gioco di mantenere buoni i principali sindacati peronisti. Aveva silenziosamente trattato con i deputati e i senatori rappresentanti dei settori sindacali in parlamento versando milioni alle loro Obras sociales, le assicurazioni sanitarie legate ai sindacati argentini, eredità dei tempi del generale Peròn. Aveva stretto una relazione politicamente tanto pericolosa quanto utile con il capo del sindacato dei camionisti, Hugo Moyano. Aveva addirittura portato con sé in viaggio di Stato in Spagna alcuni sindacalisti tra i quali il temibile Momo Venegas, per mostrare agli investitori spagnoli che l’epoca della pace sociale stava tornando in Argentina. Prospettiva che era sembrata reale nel marzo scorso, quando, per la prima volta dopo decenni, l’anno scolastico era cominciato regolarmente in tutto il paese.
L’avvicinarsi delle elezioni di medio termine di ottobre ha però convinto i sindacati peronisti a iniziare la lotta interna per decidere chi sarà nei prossimi mesi il leader dell’opposizione antimacrista, visto che la famiglia Kirchner è messa fuori gioco nella corsa alla leadership a causa dei processi giudiziari in corso. E quindi in piazza si è aperta la stagione delle proteste contro il governo.
Il settore imprenditoriale è ancora saldamente dalla parte del governo. L’agroindustriale è stato benedetto dalla decisione, economicamente inevitabile, dell’annullamento del cambio fisso fittizio con il dollaro e dalla conseguente svalutazione del peso, la moneta nazionale, che ha determinato una grande crescita del profitto di chi esporta e riceve pagamenti in dollari. L’abbassamento delle tasse sull’export di minerali e di prodotti agricoli (in particolare grano, miglio e soia) ha soddisfatto gli esportatori.
La politica di riduzione della spesa – che Macri rivendica come necessaria perché, dice, «appena siamo arrivati al governo abbiamo trovato le casse vuote, sarebbe irresponsabile continuare a sovvenzionare politiche simili senza avere i soldi per farlo» – ha però duramente colpito la classe mediobassa metropolitana in cui Macri ha raccolto voti determinanti per vincere le ultime presidenziali.
Macri ha tracciato un bilancio dei risultati del suo governo davanti alle due Camere riunite, ai governatori provinciali, al corpo diplomatico accreditato, giudici ed ai ministri della sua squadra di governo. Con un tono di forte ottimismo che, secondo molti osservatori, voleva sottolineare l’apertura della prossima campagna elettorale, ha detto il presidente: «Abbiamo superato il momento più difficile di questa transizione, il Paese oggi sta cambiando, l’Argentina si sta rialzando in piedi». «Abbiamo ristabilito relazioni mature e pragmatiche con il resto del mondo: ci hanno visitato una gran quantità di capi di Stato e di governo».
La ripresa dell’agenda delle sessioni ordinarie del Parlamento coincide con un momento di particolare tensione per l’esecutivo, in un periodo caratterizzato dalla campagna delle prossime elezioni primarie obbligatorie (PASO) di agosto e le legislative di ottobre, banco di prova per la tenuta del «macrismo». L’esecutivo è in calo di consensi e si constata una perdita di coesione della maggioranza. Oltre alle proteste per la riforma del settore pensionistico, ad agitare il clima c’è il caso del debito del Correo Argentino.
Il procuratore generale del Tesoro, Carlos Balbin, ha richiesto un’indagine per stabilire le dinamiche che hanno portato all’accordo tra lo Stato e il gruppo di Franco Macri, padre del presidente, relativo ad un milionario debito del Correo Argentino, equivalente a un condono di quasi il 99%. L’accordo è stato siglato nel giugno 2016 dal ministro delle comunicazioni Aguad, il quale ha assicurato «di non aver mai parlato con lui dell’argomento». Il procuratore federale Juan Pedro Zoni tuttavia, ha formalmente accusato il presidente Macri per presunti reati legati all’accordo. La denuncia si estenderebbe, secondo indiscrezioni di stampa, anche al ministro delle comunicazioni, Oscar Aguad, e al direttore degli affari giuridici del ministero, Juan Manuel Mocoroa. Il governo ha definito «oltraggiosa» l’indagine.
Intanto, sono rimandate almeno a non prima del 2018 le scelte che potrebbero avere un elevato costo in termini di consenso in vista delle prossime elezioni. Così, se anche sarà improcrastinabile l’aumento tariffario del gas per un ammontare pari al 67%, verrà diluito in tre tappe (aprile 2017, novembre 2017 e aprile 2018), con l’auspicio di non sconvolgere l’inflazione e soprattutto di ridurre il valore del peso nei mesi di campagna elettorale. Infine, risultano essere state sospese, al momento, le proposte di aumento del trasporto pubblico fino al 2018.