Argentina, si conferma la svolta a destra

Elezione di metà mandato – Rafforzato il corso di riforme liberali di Macri, con cui vuole rilanciare la terza economia dell’America Latina. Perde quota il peronismo della Kirchner
/ 30.10.2017
di Angela Nocioni

Si conferma la svolta a destra dell’Argentina, verso la «derecha liberal» di Mauricio Macri. Perde quota il peronismo di sinistra della ex presidente Cristina Kirchner. Le elezioni di metà mandato sono state vinte dai candidati del governo guidato da Macri, con oltre il 40% dei voti.

Gli argentini hanno votato per rinnovare un terzo del Senato (24 seggi) e la metà (127) della Camera dei deputati. Siamo a metà del mandato quadriennale del governo. Il voto di midterm è tradizionalmente nella politica argentina un test fondamentale per valutare la tenuta del presidente in carica. E gli ottimi risultati ottenuti dal partito di Macri, Cambiemos, e dai suoi alleati, rafforzano molto il governo nonostante numericamente nel Congresso, per un complesso sistema di trasformazione dei voti in seggi, Macri dovrà continuare a trattare su ogni provvedimento per ottenere la maggioranza di cui non dispone.

Il macrismo ha vinto in 14 distretti elettorali, nelle principali province (Buenos Aires, Cordoba, Santa Fe, Mendoza) oltre che nella città di Buenos Aires.

La partita si è giocata come sempre nella gigantesca provincia di Buenos Aires, «el cordon obrero de la capital», il cordone operaio, dove risiede la maggioranza dell’elettorato e dove le formazioni peroniste hanno sempre fatto il pieno di consensi. Lì, a sorpresa, il candidato di Cambiemos, l’ex ministro Esteban Bullrich, ha ottenuto il 42% delle preferenze, a fronte del 36% di Cristina Kirchner. Uno schiaffo pesantissimo per l’ex presidente, che è riuscita comunque ad avere un seggio in Senato. Questo le permetterà sia di combattere più comodamente la sua battaglia per mantenere la leadership dell’opposizione, che ora i fratelli-coltelli dell’elefantiaca galassia peronista si apprestano a contenderle, sia di essere protetta dall’immunità rispetto alle infinite vicende giudiziarie per le accuse di corruzione che la coinvolgono.

La clamorosa notizia politica che viene dalle elezioni è che il presidente taglia-sussidi invece di perdere voti li guadagna. Mauricio Macri, capo di un governo apertamente liberista che ha bruscamente svegliato l’Argentina dal sonno illusorio del cambio fisso (cioè a valore irreale) tra moneta nazionale e dollaro, che ha abolito le sovvenzioni governative al consumo di gas ed elettricità e ha deciso licenziamenti in massa nell’ipertrofico impiego pubblico, ha fatto il pieno di voti nonostante l’inflazione sia schizzata ai valori più alti degli ultimi quindici anni e Buenos Aires sia diventata la città più cara dell’America del sud anche per chi ha dollari in tasca.

Il costo sociale ed economico delle misure prese finora è stato molto alto per le fasce medie e medio basse della popolazione, ossia per la stragrande maggioranza del Paese. L’aumento improvviso del costo della vita non ha avuto alcuna compensazione salariale. Ai licenziamenti di massa nel pubblico sono seguiti quelli nel privato. La fine delle sovvenzioni pubbliche alle bollette ne ha fatto triplicare l’importo. Quando il costo della vita schizza in alto improvvisamente, senza un adeguamento dei salari, nell’Argentina iper-ideologizzata dove i sindacati (contro cui Macri è in guerra) hanno un capillare controllo della mobilitazione sociale, di solito ci si aspetta una rivolta. Invece no. Le piazze in questi mesi si sono sì riempite di manifestazioni di protesta, ma arrivata l’ora di votare gli argentini non hanno punito il presidente in carica. Segno, secondo molti analisti, che la lunga fase del «peronismo revanchista» stile anni Sessanta è al momento davvero tramontata, che la maggioranza degli elettori preferisce scommettere sulla promessa di un modello politico nuovo, nonostante risulti caro da pagare, piuttosto che continuare a puntare sulle formule di ridistribuzione di denaro pubblico senza grandi investimenti economici che hanno caratterizzato il decennio scorso.

L’Argentina resta però un Paese diviso a metà. I macristi contro gli antimacristi. I peronisti contro gli antiperonisti. La promessa di Macri di riuscire a ricomporre la frattura ideologica e culturale che squarcia la società rimane la sua meta più difficile. Raggiungerla con un 36% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà, rimane il suo compito più ostico. I suoi critici prevedono che l’indebitamento potrà solo aumentare e che il deficit e l’inflazione conseguenti spingeranno Buenos Aires nella spirale di una delle sue solite e drammatiche crisi.

Osserva stupito l’analista Ernesto Tenenbaum: «L’Argentina ha vissuto negli ultimi mesi un esperimento politico sommamente esotico. Macri è un personaggio stranissimo nella storia politica argentina. È il primo presidente venuto da una delle famiglie più ricche del paese dai tempi di Marcelo Torcuato de Alvear, cioè dal 1922, quasi un secolo. Macri è il primo che è stato presidente di una squadra di calcio, il primo a non appartenere a un partito tradizionale, a non essere né radicale né peronista. Se tutto continua a filare come è filato fin qui, e non c’è motivo per affermare il contrario, sarà il primo presidente non peronista a portare a termine il mandato, il primo dal 1928!».