Le rotte dei disperati

Le rotte balcaniche principali sono due. Una va dalla Grecia in Macedonia e in Serbia settentrionale passando da nord. Ora è la meno usata. Le persone che vogliono arrivare in Europa, passando da Trieste, percorrono la Bosnia-Erzegovina, attraversano il fiume o camminano lungo i ponti della ferrovia. Oppure passano da sotto, verso il mare. Dalla Grecia verso l’Albania e poi in Montenegro e da lì in Bosnia. La rotta dall’inizio del 2022 è scesa più in basso, sotto costa, e il flusso è rallentato. In Italia succedeva spesso fino alla fine del 2021 che i migranti entrati a Trieste venissero respinti senza foglio d’espulsione, verso la Croazia.


Angeli dei migranti

Ogni giorno a Trieste Lorena Fornasir accoglie chi scappa dall’orrore insieme ad altri volontari
/ 25.04.2022
di Angela Nocioni

È una donna elegante. Ha occhi grigi senza una goccia di commiserazione. E mani leggere da infermiera. Si chiama Lorena Fornasir, ha 67 anni, ha lavorato a lungo come psicologa clinica in ospedale a Pordenone, è stata giudice onorario per le adozioni a Trieste. Ora tutti i pomeriggi va nel piazzale davanti alla stazione centrale di Trieste. Finiscono lì, tra le aiuole vicino alla ferrovia, gli immigrati che arrivano da est (non stiamo parlando di ucraini). «Oltre alla statua della principessa Sissi qui c’era anche una fontanella», racconta. «Gliel’hanno chiusa con la scusa del Covid. Qui arrivano a volte 10 persone, a volte nessuno, a volte 50. Sono affamati, assetati, spaventati. Hanno bevuto dalle pozzanghere. Vagato per i boschi, mangiato foglie. Spesso non dormono da giorni. Hanno scarpe rotte, piedi feriti e segni di torture».

Chi sono?
Sono afgani, siriani, iracheni, curdi, qualche yemenita. Io non posso che togliere il pus dai loro piedi e rendermi testimone delle loro vite.

Cosa fa?
Un gesto semplice. Gli domando «chi sei, come ti chiami». Spesso sono mesi e mesi che non glielo chiede nessuno. Non sempre rispondono, a volte non hanno voglia di parlare. Si vergognano. Lavo i loro piedi, medico le ferite, metto le garze, do calze pulite.

Perché lo fa?
Non ho mai fatto volontariato in vita mia. E non mi piace supplire allo Stato che dovrebbe assisterli. Arrivano qui stremati se sopravvivono al Game. Lo chiamano così il viaggio in cui puoi farcela e vincere, o essere un fallito e tornare indietro. Oppure morire. In Bulgaria gli aizzano contro i cani d’assalto. In Croazia li rinchiudono nei container per due o tre giorni, tra i loro escrementi. Spesso li torturano, poi li rimbalzano indietro. Gli tolgono i vestiti, le scarpe. Quindicenni ricacciati con le scosse elettriche. Li inseguono nei boschi con i droni, con gli strumenti che rilevano il calore. Li trovano e li bastonano. A qualcuno scorticano le gambe.

Come si comporta con lei la polizia?
Lascia fare, finge di non vedere, si lascia togliere le castagne dal fuoco. Mi hanno denunciato l’anno scorso per favoreggiamento all’immigrazione clandestina ma il giudice ha archiviato il caso perché non c’era il reato. Gli immigrati della rotta balcanica sono a Trieste di passaggio. Vogliono salire sul treno per Milano, Torino, Val di Susa. Vogliono andare in Francia, in Germania. C’era un centro di primo soccorso. Hanno chiuso anche quello. Chi non parte subito va a dormire in una struttura fatiscente del vecchio porto austriaco. Scavalcano la recinzione e si rifugiano lì dentro. Ogni tanto fanno degli sgomberi. Io che non avevo mai usato Facebook in vita mia, ho dovuto cercare aiuto con i social durante l’ondata della prima rotta balcanica, chiedevo: dove sono le organizzazioni umanitarie? Sono arrivate persone piano piano. Abbiamo dovuto formare un’organizzazione di volontariato (lineadombra.org). Saremo una quindicina in piazza a volte. Ricercatori universitari. Studenti. Persone che vengono da fuori.

Lei è figlia di partigiani. Chi era sua madre?
Una ragazza borghese, cattolica, antifascista. È stata agente di Tito. Aveva studiato in Convitto. Sapeva di medicina. Drogava i gerarchi fascisti, ha salvato molte persone. Credo che mia madre mi abbia lasciato una eredità sottile. Quando curo i piedi di questi ragazzi, dal basso posso guardare i loro occhi. Si vergognano a farsi curare i piedi, mi dicono «scusa mamma, scusa mamma». Mi prendono le garze per pulirsi da soli, sono piedi che puzzano come pannolini. Loro mi riconoscono come persona e io li riconosco. Con un gesto semplice si crea una grande intimità. La loro energia è una sorgente. È un dono reciproco che ci facciamo. Vedendo loro, vedendo i migranti, come possiamo sopportare le nostre vite?