C’era una volta Angela Merkel, immarcescibile domatrice della scena tedesca, alfa e omega degli equilibri europei. Rieletta non trionfalmente per la quarta volta lo scorso autunno, dopo aver tentato inutilmente per mesi di allestire la sua coalizione preferita con Verdi e liberali (FDP), è dovuta ripiegare sulla nuova Grande Coalizione con la SPD – grande solo nel nome, visto che non supera il 53% dei consensi – e con i cugini bavaresi della CSU. Oggi della stella di Berlino, del suo carisma e della sua capacità di moderare e indirizzare i faticosi compromessi intracomunitari resta poco. Siamo anzi in piena Merkel-Dämmerung. Tramonto che rischia di assomigliare a quella che travolse il suo predecessore, Helmut Kohl, che notoriamente non l’amava. Che cosa è successo? Almeno quattro piste ci aiutano a cogliere senso e tratti di tanto declino.
In primo luogo, il naturale logorio del potere. Di questi tempi, con la crescente delegittimazione della politica – in Germania meno che altrove – e la pressione mediatica e social-mediatica incombente, i leader tendono a durare meno di prima. Ogni loro decisione o indecisione si riflette in tempo reale nell’opinione pubblica, che reagisce spesso nervosamente. Ai capi si richiedono riflessi rapidi e parole chiare. Non proprio la specialità di Merkel. Celebre anzi per la sua inclinazione a «sedersi sopra» i problemi, a gestirli anziché risolverli, a scegliere solo dopo aver valutato ogni ipotesi e ascoltato – o finto di ascoltare – i suoi fidi consiglieri. Quattro mandati sono forse troppi. Non è detto che la cancelliera riesca a terminare quello corrente, che comunque sarà l’ultimo. Sicché nella CDU è cominciata la rissa per la successione, per ora coperta, ma destinata a esplodere entro la fine dell’anno.
In secondo luogo, l’economia e la situazione sociale in Germania non sono più così rosee e tranquillanti come un tempo. Nuvole nere si addensano sull’economia globale e sulla finanza ormai fuori controllo, investendo anche le Borse e il sistema bancario tedesco – il caso della Deutsche Bank, ridotta a una sorta di hedge fund, è paradigmatico. Per un paese campione mondiale delle esportazioni, dotato di un apparato industriale di prima qualità orientato verso i mercati esteri, molto meno verso quello domestico, il rallentamento della crescita globale e la minaccia di una nuova recessione negli Stati Uniti, che alcuni prevedono entro l’anno prossimo, sono segnali pessimi.
In terzo luogo, l’offensiva di Trump contro la Germania e contro tutti i paesi che dal suo punto di vista – violentemente mercantilista e protezionista – colpiscono il made in America. La strategia statunitense dei dazi e delle tariffe, diretta anzitutto contro la Cina, ma anche contro gli «alleati» europei, tedeschi in testa, crea grossi impedimenti allo sviluppo dei commerci. Il clamoroso surplus commerciale della Germania con il resto del mondo, valutato attorno all’8% del Pil, appare destinato al dimagrimento. Allo stesso tempo, i mercati europei, che restano decisivi per un’economia globalmente estroflessa ma comunque incardinata nell’Eurozona e nel contesto comunitario, stentano ad assorbire l’offerta di merci germaniche, anche quelle di miglior qualità.
Quarto e decisivo punto d’inciampo, la questione migratoria. In queste settimane Merkel ha rischiato su questo tema una devastante crisi di governo. La rivolta del ministro bavarese dell’Interno, Horst Seehofer, esponente di punta della CSU, che proponeva una drastica chiusura ai migranti di ogni specie e categoria, è stata composta con un faticoso, traballante compromesso. Merkel ha dovuto digerire i «centri di transito» in cui saranno rinchiusi i profughi provenienti da paesi con i quali Berlino ha stipulato accordi di restituzione. Ciò ha suscitato le reazioni esplicite della SPD, per niente soddisfatta dell’intesa inter-democristiana, con conseguente nuova fibrillazione nella maggioranza. La decisione presa personalmente dalla cancelliera nel settembre 2015, di aprire le porte della Germania ai migranti siriani, accogliendone quasi un milione, si è rivelata un boomerang. Ne è derivata la rapida marcia indietro via accordo con la Turchia per bloccare la via balcanica. Ma non è bastata. Ormai in Germania come nel resto d’Europa la questione dei migranti è diventata quasi ingovernabile. Non per i numeri, in netto calo, ma per la percezione di un’invasione che non c’è ma è come se ci fosse.
Il tramonto di Merkel indebolisce la Germania in Europa e nel mondo. Per un paese geopoliticamente introverso, nel quale l’idea della «Grande Svizzera» continua a essere senso comune per buona parte della popolazione, il convergere di crisi e conseguenti responsabilità internazionali è difficile da affrontare. Anche culturalmente. La storia dimostra che fra le qualità germaniche non spicca la flessibilità, l’adattamento.
Oggi Berlino dovrebbe assumere un ruolo pilota nell’ambito di ciò che resta dell’Unione Europea, ma non ha gli strumenti culturali, politici e strategici per farlo. Né si vede chi possa surrogarne il ruolo – anche se Macron si è fatto venire qualche idea al riguardo. Risultato: prepariamoci a un’accelerazione del processo di disintegrazione europea. Dopo il Brexit, la regola intracomunitaria è sempre più evidente: tutti contro tutti. Senza più un moderatore in Germania che sappia pilotare la barca comune fra gli scogli aguzzi che minacciano di affondarla.