Anche «The Economist» ascolta Greta

Clima – Secondo il magazine inglese, una delle voci più autorevoli del mondo del business e dei mercati azionari, i cambiamenti climatici alimentano la possibilità che si verifichino guerre e massacri
/ 10.06.2019
di Christian Rocca

Sappiamo ormai tutto dei cambiamenti climatici causati dal surriscaldamento terrestre e dei rischi che corre il pianeta, nonostante i negazionisti e i fatalisti su Twitter e alla Casa Bianca non facciano mancare all’opinione pubblica una versione meno catastrofista. Da una parte ci sono gli scienziati, i rapporti delle Nazioni Unite, gli accordi internazionali per limitare le emissioni di carbone, l’industria automobilistica che si ripensa, la mobilitazione globale dei ragazzi guidati dalla svedese Greta, i successi dei partiti ecologisti alle elezioni europee e la consapevolezza delle nuove generazioni che considerano il climate change la sfida urgente del nostro tempo. Sul fronte opposto ci sono le relazioni di altri scienziati, il girarsi dall’altra parte dei paesi in via di sviluppo e dei regimi autoritari e ora anche la rumorosa leadership di Donald Trump e dei governi populisti.

La settimana scorsa, il settimanale britannico «Economist», una delle voci più ascoltate nel mondo del business e dei mercati azionari, un’istituzione giornalistica non sospettabile di seguire mode e tantomeno ideologie anticapitaliste, ha introdotto un altro tema: secondo il magazine inglese, i cambiamenti climatici causano guerre e aumentano la possibilità che si verifichino rivolte e massacri.

L’«Economist» non arriva a dire che la guerra in Siria o il genocidio in Darfur siano una diretta conseguenza del surriscaldamento terrestre, perché nessun conflitto armato può scoppiare senza qualcuno in carne e ossa che dia ordini ai generali e alle truppe, e certamente i fattori scatenanti i conflitti sono molteplici, dalla povertà alle differenze etniche, dal fondamentalismo religioso all’approvvigionamento delle materie prime, ma il magazine sostiene che gli storici saranno in grado di stabilire che i cambiamenti climatici avranno reso le guerre più probabili di quanto sarebbero state senza il global warming. La tesi del settimanale è che «i cambiamenti climatici causano sconvolgimenti ambientali che destabilizzano intere regioni e aumentano il rischio di spargimento di sangue». 

Quello che è successo durante il Consiglio Artico del 6 maggio ha destato la preoccupazione anche di un altro organo di stampa serio e non sospettabile di anticapitalismo come «Bloomberg Businessweek». Entrambi i settimanali anglosassoni hanno letto il rifiuto americano, esplicitato dal Segretario di Stato Mike Pompeo, di firmare una dichiarazione comune per il solo fatto che conteneva un riferimento agli effetti del surriscaldamento terrestre, come un momento simbolico del rischio che stiamo correndo: mentre le calotte polari si restringono, la Russia e i paesi Nato stanno rinforzando la loro presenza militare, così come la Cina sta costruendo una rompighiaccio nucleare.

Pompeo, a nome degli Stati Uniti, ha denunciato il comportamento aggressivo dei russi e la questione, spiega l’«Economist», diventerà sempre più pericolosa nel momento in cui il mitico Passaggio a Nord-Ovest, per effetto dello scioglimento dei ghiacciai, si aprirà ancora di più alle flotte commerciali e magari quando nelle sue acque saranno scoperti giacimenti di minerali di valore che apriranno una sicura contesa internazionale dagli esiti inimmaginabili.

Ma se tra le grandi potenze prevale ancora l’idea che nessuno può permettersi di far scoppiare una guerra nucleare globale, poiché non ci sarebbero vincitori ma solo l’inevitabile distruzione collettiva, il rischio vero dei cambiamenti climatici si può valutare nel sud del mondo, nelle zone desertiche già infestate da carestie, siccità e guerre civili. «Alcune cose sono chiare – scrive l’«Economist» – l’effetto serra aumenta in alcune regioni la frequenza e l’intensità di siccità e alluvioni. Le piogge stagionali e i monsoni stanno diventando più variabili e meno prevedibili: mentre alcune aree diventano aride, gli abitanti sconfinano in terre tradizionalmente coltivate o usate per pascolo da altri. Scoppiano confitti, alcuni dei quali sono già diventati violenti, specialmente nel Sahel, una grande striscia d’Africa sotto il Sahara». Le tensioni causate dai problemi ambientali hanno già un impatto sugli storici e violenti conflitti in Burkina Faso, Chad, Camerun, Mali, Niger, Nigeria e Sudan del sud e più aumenta la temperatura terrestre più queste dispute rischiano di diventare comuni.

La storia racconta molti esempi di caos civile provocato dai cambiamenti climatici ma, restando nell’attualità, secondo alcuni rapporti accademici degli ultimi anni anche il conflitto siriano, tra il 2012 e il 2015, ha avuto come catalizzatore il surriscaldamento terrestre. Sarebbero state le emissioni umane nell’atmosfera a peggiorare la siccità nella regione che, di conseguenza, ha causato la migrazione di massa dalle campagne alle città e che poi ha portato alle tensioni e alla guerra civile e, infine, all’esodo di massa dei migranti siriani verso l’Europa.

Il problema è serio, ma l’urgenza di intervenire è avvertita solo tra le nuove generazioni, non tra i leader attuali, e non si vedono all’orizzonte soluzioni serie e all’altezza della sfida. Il rischio è che si entri nella spirale tragica di un numero maggiore di conflitti provocati dai cambiamenti climatici, di conseguenti guerre che rendono le regioni poco sviluppate ancora più povere e di una povertà diffusa che rende più probabile ulteriori guerre.