Anche l’anima ha un profilo

Scandalo Facebook – Dopo le rivelazioni su Cambridge Analytica, il titolo del social network crolla in Borsa e sul suo fondatore Zuckerberg si addensano le nubi delle conseguenze legali. E molti gli utenti invitano a #deletefacebook
/ 26.03.2018
di Federico Rampini

Forse la svolta è stata segnata dal lancio di una class action (causa giudiziaria collettiva), a segnalare la possibilità che Facebook sia seriamente nei guai. O forse da quello «hashtag» che sta facendo il giro del mondo: #DeleteFacebook, che annuncia la nascita di un movimento per disertare dal social media. Dopo il Parlamento inglese, la Commissione Ue, il Congresso di Washington, l’authority antitrust americana (Federal Trade Commission), anche Wall Street ha reagito alla tempesta di accuse su Facebook. In due sedute la settimana scorsa il gigante dei social media ha perso 50 miliardi di dollari di valore ed è stato declassato dalla Top Five della Borsa americana. La Cnn parla di una «crisi esistenziale» per Facebook.

Riassumendo i fatti: questa è la seconda volta che Facebook viene implicato in una torbida vicenda legata all’elezione di Donald Trump. Prima c’era stato l’uso massiccio del social media da parte della propaganda russa, per diffondere fake-news e manipolare gli elettori americani. Il secondo scandalo è di una natura diversa. Qui il malfattore non ha passaporto russo ma anglo-americano. È una società dal nome altisonante quanto ingannevole, Cambridge Analytica, che in realtà non fa studi accademici bensì marketing elettorale in modo tutt’altro che trasparente. Usa Big Data e «modelli psicografici». Ha avuto come finanziatori Steve Bannon, l’ideologo di estrema destra che fu consigliere di Trump, insieme al suo munifico mecenate Robert Mercer, miliardario e ultrà della destra repubblicana.

Facebook entra in gioco come comprimario e complice, perché Cambridge Analytica ha saccheggiato i profili personali di 50 milioni di utenti di Facebook. Numero grosso: se si tiene conto dell’effettiva affluenza alle urne, è quasi un terzo dei votanti in un’elezione americana. I dati personali e privati sono stati usati ai fini di una campagna elettorale di tipo subliminale: cioè per confezionare dei messaggi ad hoc, in grado di influenzare i singoli elettori facendo leva sul loro carattere, i gusti e le frequentazioni, le letture, i valori e le sensibilità di ciascuno. Se poi Cambridge Analytica abbia davvero inventato l’algoritmo perfetto per influenzare le coscienze, o se si tratti di ciarlatani e venditori di fumo, è un altro discorso. Comunque va ricordato che l’elezione presidenziale del novembre 2016 si è giocata sul filo del rasoio, per minuscole percentuali e spostamenti marginali di voti in pochi Stati-chiave. Ciò che è grave è il comportamento di Facebook. 

I vertici del social media hanno saputo di questa vicenda da tempo, e hanno taciuto. Non hanno neppure informato né messo in guardia privatamente i 50 milioni di utenti vittime della violazione. Quando lo scandalo è stato denunciato da alcuni giornali inglesi, la prima reazione del top management di Facebook è stata la minaccia di denunciarli per diffamazione. Poi hanno fatto ricorso a giustificazioni penose, ad esempio sostenendo di essersi fidati delle «finalità accademiche» di Cambridge Analytica. Dunque: zero controlli da parte di un social media che profitta di un business multimiliardario, quando qualcuno attinge ai loro dati in modo così massiccio. La cosa più grave è che non c’è stata «pirateria» in senso letterale, nessuno ha violato nottetempo la cassaforte, tutto è avvenuto nel rispetto delle regole. S’intende: le regole che Facebook ha fissato per se stesso. È proprio il tema delle regole e della responsabilità, il risvolto più inquietante. In molti altri campi dell’attività economica, le imprese hanno doveri da rispettare nei confronti dei consumatori. Se un prodotto di largo consumo è difettoso o pericoloso, scattano incriminazioni e processi, obbligo di riparare il danno, indennizzi alle vittime. Nella Rete l’irresponsabilità regna. È troppo spesso una «no man’s land» giuridica. Le regole se le sono scritte loro. 

In questo contesto Mark Zuckerberg, capo azienda e azionista principale di Facebook, ha venduto altri 350 milioni di dollari delle sue azioni. È un altro passo verso la dismissione di 12 miliardi che lui si è data come traguardo. Con questo progressivo (ma parziale) sganciamento, alimenta donazioni, per esempio a grandi università come Harvard e Mit. Zuckerberg sembra attirato dal modello di Bill Gates: lasciare ad altri la gestione dell’azienda che ha fondato, e costruirsi una seconda vita come benefattore dell’umanità. Con tutto il rispetto che merita la filantropia, nel suo caso dovrebbe prima riparare gli immensi guasti che ha provocato la sua azienda. Anche nella disseminazione delle fake-news, il social media è ben lontano dall’aver offerto degli antidoti efficaci e convincenti.

Fino a ieri era il trentenne più potente della Silicon Valley; innovatore geniale che aveva catturato quasi un terzo della popolazione mondiale nei tentacoli del suo social media; forse accarezzava il sogno di una candidatura alla Casa Bianca. L’Utopia di Zuckerberg in che cosa consisteva? Basta attingere alle sue parole testuali. È l’aprile del 2016, all’inizio della campagna elettorale americana, quando Zuckerberg riunisce i suoi collaboratori per lanciare una sorta di Manifesto Politico. Quasi due anni fa, allora 31enne, il fondatore e chief executive di Facebook illustra la filosofia e i valori della sua azienda. «Siamo una comunità globale unica, nell’accogliere i rifugiati che tentano di salvarsi da una guerra, o gli immigrati in cerca di opportunità; nell’unirci per combattere un’epidemia o il cambiamento climatico». Polemizza contro «le voci della paura che invitano a costruire muri e a prendere le distanze dalle persone descritte come diverse da noi». Al centro del suo messaggio Zuckerberg mette uno slogan: «Dare a ciascuno il potere di condividere con tutti gli altri».

Verbo-chiave, to share, indica la «condivisione» di messaggi, foto, esperienze e commenti che ciascuno fa con gli amici sulle proprie pagine di Facebook. Ma è anche allusione a un altro tipo di condivisione, la diffusione delle opportunità, la distribuzione delle ricchezze. Zuckerberg si appropria così di una tradizione della Silicon Valley e di tutta la West Coast americana: un luogo dove gli imprenditori hanno spesso cavalcato visioni progressiste, utopie sociali, il sogno di rifare il mondo. Poi, a elezione avvenuta e con Trump alla Casa Bianca, l’estate scorsa lo stesso Zuckerberg parte per un tour nazionale attraverso gli Stati Uniti, che molti interpretano come il trampolino di lancio verso una carriera politica.

Vuole toccare 30 Stati Usa con lo scopo di «conoscere meglio gli americani». Comincia proprio da quell’Iowa dove hanno inizio ogni quattro anni le primarie per la nomination. Poi il Michigan dove incontra a Detroit gli operai della Ford, una constituency che fu decisiva per l’elezione di Trump. Assume nella propria Fondazione uno degli strateghi delle vittorie di Barack Obama, David Plouffe, considerato un genio del marketing elettorale. Alle dietrologie Zuckerberg risponde: recluto talenti al servizio dell’impegno umanitario. La sua Fondazione ha la missione di «curare malattie, migliorare l’istruzione, dare voce a tutti coloro che vogliono costruire un futuro migliore». 

Solo mercoledì 21 marzo Zuckerberg è uscito dal suo silenzio sugli scandali di Facebook. Si è assunto ogni responsabilità, si è impegnato a rimediare. Però non ha convinto. Dopo le prime giornate dello scandalo Cambridge Analytica, segnate da un mutismo che stava diventando misterioso e insostenibile, ci si poteva aspettare molto di più. Il 33enne che siede su una fortuna di 70 miliardi riconosce che c’è stato un «abuso di fiducia» ai danni degli utenti. Si fa carico della «responsabilità di proteggere i vostri dati». E se questa responsabilità viene tradita, «noi non meritiamo di servirvi». Linguaggio nobile. Seguito però da un’affermazione sconcertante: «Sto lavorando per capire esattamente cos’è accaduto, e come garantire che non accada più». Fastidioso déjà vu: promesse solenni di non cascarci più vennero pronunciate anche dopo lo scandalo precedente, quello sulle fake-news disseminate dai russi, via Facebook, per aiutare Trump in campagna elettorale. Poi per quanto riguarda i 50 milioni di utenti «violati», è una storia che comincia due anni fa, di cui il top management di Facebook è al corrente da molto tempo. È verosimile che Zuckerberg stia ancora cercando di capire cos’è successo?

Lo abbiamo capito tutti, cos’è successo. La fonte di fatturato e di profitti di questa società, il nucleo duro della sua vocazione aziendale, è la vendita della nostra privacy. È impressionante l’elenco delle «chiavi d’accesso» alla nostra vita privata (digitale), a partire dall’indirizzo IP che porta incollato a sé ogni «clic», ogni carezza del pollice sul display, ogni sito che visitiamo. Le nostre amicizie e le nostre preferenze politiche, i nostri consumi e i nostri valori, il nostro reddito e i nostri spostamenti geografici, tutto è registrato, memorizzato, tariffato, venduto.

In più, ogni volta che «condividiamo» con gli amici un parere su un fatto di attualità, un commento uscito su un giornale, stiamo facendo una sorta di delazione, segnaliamo al marketing del pensiero e al «commercio dell’attenzione umana» tutti gli appartenenti alla nostra tribù. Certo a questo punto un dilemma etico, civile e politico dovremmo cominciare a porcelo noi tutti: a partire da quale momento, con quale livello di consapevolezza, abbiamo firmato il patto leonino per cui vendiamo la nostra anima ai social media, in cambio di un po’ di servizi gratuiti? L’apparente gratuità – apparente perché in quel gioco siamo noi i prodotti in vendita a pagamento – è l’offerta che ci ha allettati e corrotti, attirandoci in questa trappola.