Anche la Silicon Valley teme il caos

Disruption digitale – Gli abusi di questi anni, in termini di violazione della privacy e dei processi elettorali, possono diventare strumenti ancora più pericolosi per le democrazie e il loro business
/ 04.03.2019
di Christian Rocca

La Silicon Valley comincia a farsi venire i primi timidi dubbi sull’impatto della rivoluzione digitale nella società contemporanea. Non è ancora una reazione strategica e coordinata, tantomeno imposta da leggi e regole globali, ma si moltiplicano i casi di singole aziende tech, grandi e piccole, che provano ad allacciarsi le cinture di sicurezza per evitare che gli abusi di questi anni, in termini di violazione della privacy e dei processi elettorali, possano diventare strumenti ancora più pericolosi non solo per il tessuto sociale delle democrazie, ma anche per il loro business.

La disruption (turbativa) digitale creata da Internet ha modificato comportamenti individuali, politici e industriali, favorendo una disintermediazione tra popolo e potere, tra individuo e famiglia, tra consumatore e produttore che ha prodotto innovazione e crescita ma anche conseguenze sociali senza precedenti. Sono stati però i social media assieme all’uso dei dati personali, ad aver avuto un impatto negativo sull’informazione e sul dibattito pubblico e un ruolo decisivo sulla crescita dei populismi.

Le grandi piattaforme digitali, Facebook e Google, non se ne sono accorte in tempo, impegnate come erano a inseguire un’utopia libertaria che non disdegna il profitto capitalista, e non hanno tenuto conto delle notevoli obiezioni non di luddisti o di reazionari contrari alle novità tecnologiche, ma di pionieri di Internet come Tim Berners-Lee (l’inventore del web), Jaron Lanier (il guru della realtà virtuale) e di tanti pensatori della cultura digitale. Per convincerle c’è voluto il diffuso senso di frustrazione che si è avvertito in tutto il mondo occidentale dopo le manipolazioni dell’opinione pubblica in Gran Bretagna e soprattutto negli Stati Uniti, ma anche dopo la proliferazione delle fake news, l’ascesa dei populismi e l’indebolimento dei fondamentali della società contemporanea.

Facebook è la piattaforma più attiva in questo senso, per una ragione molto semplice: a causa dell’uso sconsiderato dei dati degli utenti, della facilità di circolazione delle fake news nella sua comunità e dell’abuso della posizione dominante da monopolista, l’azienda di Mark Zuckerberg è la più esposta pubblicamente tra le Big Tech e i suoi top manager non brillano per empatia o efficacia di comunicazione. Su Facebook sono accesi i riflettori di varie commissioni d’inchiesta parlamentari di qua e di là dell’Atlantico e non si arresta la scrupolosa valutazione, anche fiscale, sulle sue attività. I grandi giornali conducono inchieste incessanti sulle sue violazioni della privacy e quando si parla di monopoli da spezzare o di fake news da fermare si pensa principalmente al social network di Zuckerberg.

Per questo motivo, Facebook prova sia ad attaccare sia a difendersi, lottando strenuamente per consolidare la sua posizione dominante e allo stesso tempo mostrando un lato compassionevole nei confronti di chi inizia a esprimere diffidenza nei confronti delle piattaforme digitali. Una delle accuse rivolte a Facebook è quella di essere diventato un’entità troppo grande, quasi uno Stato. Una comunità di oltre due miliardi di persone, secondo i critici, non può essere gestita da una singola corporation senza peraltro riconoscere alcun diritto agli utenti. La risposta di Zuckerberg è dimensionata alla sfida, tanto che ha immaginato una fase costituente di Facebook, appunto come se si trattasse di una comunità-Stato, affidata a una commissione di esperti semi-indipendenti che dovrà fissare le regole condivise di un meccanismo globale sui comportamenti da tenere sulla piattaforma.

Nei prossimi mesi, Facebook farà partire una serie di consultazioni globali, aperte a terzi e a gruppi di pressione, in modo da arrivare alla fine dell’anno con tutti gli elementi a disposizione per far partire il lavoro dei 40 membri della commissione (che staranno in carica tra i tre e i sei anni).

Nei giorni scorsi sono cominciati ad affiorare i primi malumori anche tra i ricercatori dell’intelligenza artificiale, i quali si preoccupano dei potenziali pericoli pubblici causati dalle loro innovazioni. In particolare, i programmatori di un sofisticato software capace di generare testi che sembrano scritti da esseri umani hanno deciso di tenere per sé i codici, in modo da prevenire possibili abusi ed evitare un’automazione su scala industriale delle fake news. Preoccupazioni condivise anche dal Pentagono che, il 12 febbraio, ha pubblicato alcuni estratti della Strategia sull’Intelligenza Artificiale. Il documento della Difesa americana avverte che le capacità della Cina di sviluppare armi basate sull’intelligenza artificiale pongono una minaccia esistenziale all’ordine internazionale.

La Strategia sull’Intelligenza Artificiale è un piano d’azione rivolto alla burocrazia militare e civile di Washington, ma tra i destinatari c’è anche la Silicon Valley. Il Pentagono ritiene essenziale che le aziende tecnologiche, tradizionalmente restie a collaborare con l’apparato militare, lavorino insieme allo Stato per contrastare le minacce esterne. La novità è che per la prima volta non c’è una chiusura perentoria della Silicon Valley.

Le perplessità cominciano a circolare anche tra gli adepti di blockchain, una tecnologia che fino a qualche tempo fa era descritta come sicura e inviolabile dai pirati informatici e per questo destinata a rivoluzionare le transazioni finanziarie e il sistema bancario. Gli esperti però adesso segnalano che blockchain è molto vulnerabile e costantemente sotto attacco degli hacker, i quali tra il 2017 e il 2018 hanno rubato più di due miliardi di dollari in criptovalute.