Anche in Italia le stesse difficoltà

Operatori costretti a chiudere i battenti per carenza di personale e dipendenti esauriti per le pessime condizioni di lavoro
/ 11.07.2022
di Alfio Caruso

È da tempo che dalle cucine di famosi ristoranti italiani prorompe un grido di dolore: non ci sono più cuochi e nemmeno camerieri. A lanciarlo sono celebrati chef, spesso adorni di stelle Michelin: da Giancarlo Perbellini di Casa Perbellini a Verona ad Alessandro Borghese, di grande fama televisiva; da Pino Cuttaia di La Madia a Licata, in Sicilia, a Viviana Varese di Viva a Milano; da Antonia Klugmann di Argine a Vencò di Dolegna del Collio, in provincia di Gorizia, a Davide Oldani di D’O di Cornaredo, nel milanese, a Giancarlo Bartolini dell’omonimo ristorante nel Museo delle Culture di Milano. Lamentano l’impossibilità di reperire esperti cucinieri e giovani da far crescere con stipendi ritenuti sostanziosi: 2000 euro per i cuochi, 1400 più le mance per i camerieri. Affermano che quanti si presentano, soprattutto i ragazzi, sono molto più interessati ai giorni liberi e all’orario quotidiano in un mestiere dove, al contrario – è la tesi degli chef – non bisogna guardare l’orologio. Ed è proprio questo l’aspetto più dibattuto della polemica, capace di arroventare l’atmosfera dai locali di grido alle locande di paese. Cuochi e camerieri sostengono di dover affrontare turni massacranti per paghe ben lontane da quelle prospettate. Diverse località del Meridione sono state tappezzate di manifesti espliciti sin dal titolo: «Cercasi schiavo per l’estate». Vi si legge: «Per la stagione estiva 800 euro al mese, 10 ore al giorno. Contratto irregolare o stipendio in nero. Giorno libero? Ah ah ah!». Eppure il rilancio del settore appare ben concreto, dopo un biennio disastroso causa pandemia: nel 2020-2021 la ristorazione nella vicina Penisola ha perso 243mila addetti, dei quali 113mila a tempo indeterminato.

A Torino ha chiuso i battenti tra gli altri l’Acciuga Bistrot, che in sei mesi aveva raggiunto l’eccellenza tra i ristoranti di pesce. Nel cartello appeso sulle serrande abbassate il titolare ha scritto: «Non riesco ad assumere, quindi chiudo bottega». In poco più di quattro settimane dalla pubblicazione dei suoi annunci – afferma quest’ultimo – zero colloqui e solo qualche telefonata per chiedere informazioni. «Le paghe di 1700 euro (netti) al mese, per 12 mensilità, per cuoco e aiuto cuoco, e di 1400 euro per cameriere di sala non sono state considerate appetibili». Non si arrende il proprietario di un minimarket di Firenze: fa distribuire volantini nei quali garantisce 6 mila euro netti per tre mesi, un giorno di riposo settimanale, un week end gratuito per due a fine contratto. Chissà se ha trovato. D’altronde, le previsioni a maggio delle associazioni di categoria certificavano che per l’estate su un fabbisogno di 390 mila lavoratori per i servizi di alloggio, ristorazione e turistici ne sarebbero mancati oltre 150mila, con prenotazioni record fino ad ottobre.

L’inattesa crisi di vocazione è addebitata sia ai lunghi mesi di lockdown, che hanno sviluppato l’amore per il tempo libero e la voglia di un lavoro autonomo da svolgere fra le mura domestiche, sia al reddito di cittadinanza (un sussidio introdotto nel 2019 destinato alla fascia di popolazione che si trova sotto la soglia della povertà assoluta) trasformato in cuscinetto di garanzia e che induce molti a volere una retribuzione in nero per non perderlo. Con questo desiderio di una maggiore qualità della vita vengono spiegati i crescenti abbandoni. A Milano in un anno si sono dimessi in 420mila; nel Veneto fra gennaio e aprile 2022 66mila hanno rinunciato al posto garantito. Contemporaneamente sono cresciute di quasi il 50 per cento le vendite porta a porta: attirano le percentuali sui risultati, con le quali incentivare il magro stipendio base (poco più di mille euro), e la gestione dei propri spazi.

Intanto per molti italiani continua il miraggio di un lavoro in Svizzera. Stando ai dati pubblicati in maggio dall’Ufficio federale di statistica (Ust), i frontalieri continuano ad aumentare. Nel primo trimestre 2022 i lavoratori con permesso G erano oltre 365 mila a livello nazionale, in progressione del 6,2% su base annua. In Ticino erano quasi 75 mila, in aumento del 4%.