Manuel Bessler
Nato a Zurigo nel 1958, studia diritto all’Università di Zurigo e alla Harvard Law School. Nel 1991 entra a far parte del Comitato internazionale della Croce rossa. Nel 1994 è collaboratore militare dell’ispettore generale della Forza di protezione delle Nazioni Unite nell’ex Jugoslavia. Dal 2000 al 2011 lavora per l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari dell’ONU. Dall’ottobre 2011 è delegato dell’Aiuto umanitario della Svizzera e capo del Corpo svizzero di aiuto umanitario.


«Anche in guerra ci sono regole»

A colloquio con Manuel Bessler, delegato dell’Aiuto umanitario della Svizzera e capo del Corpo svizzero di aiuto umanitario, sulla crisi in Siria, sulle difficoltà di soccorrere le vittime e sulle violazioni del diritto umanitario internazionale
/ 05.12.2016
di Luca Beti

«Manuel Bessler è molto occupato in questo momento», mi informa una sua collaboratrice. Eppure il delegato dell’Aiuto umanitario della Svizzera si riserva un’ora per rispondere alle mie domande. Sa quanto siano importanti i media per mantenere e richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle crisi umanitarie nel mondo. «Di Haiti più nessuno parla. Eppure è trascorso così poco tempo dal devastante uragano che ha investito l’isola», mi dice Manuel Bessler. 

Le crisi nel mondo sono talmente tante che troppo spesso vengono semplicemente dimenticate. Quando è stata l’ultima volta che abbiamo sentito parlare delle popolazioni indigene emarginate sulle Colline di Chittagong, a Sud-est del Bangladesh, o del campo profughi dei sahrawi, nell’Algeria occidentale o degli esuli rohingya in Myanmar? Sono crisi dimenticate dai media e dall’opinione pubblica, a volte anche dagli attori umanitari. E poi ci sono quelle crisi interminabili che ci accompagnano nella nostra giornata, a pranzo mentre ascoltiamo la radio o dopo cena davanti alla televisione. Le seguiamo quasi con indifferenza perché le tragedie che si consumano altrove sono diventate parte della nostra quotidianità. Da quanti anni si combatte in Yemen, nella Repubblica centroafricana o in Sud Sudan? E in Siria? Di sicuro da troppi anni.

Raid sugli ospedali di Aleppo. Gli attori umanitari sono allo stremo delle loro forze. Mosca e Washington si accusano a vicenda. Così titolava un giornale all’inizio di ottobre. Quali sentimenti prova quando legge simili notizie? Rabbia, frustrazione… 
La rabbia forse non è la parola corretta. È piuttosto una notizia che mi opprime e mi lascia tanto amaro in bocca. Mi preoccupa molto il fatto che oggi le guerre siano combattute senza alcun rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Sempre più spesso i belligeranti ingaggiano le loro battaglie in zone altamente popolate, così come avviene ad Aleppo. In simili situazioni è quasi impossibile distinguere i combattenti da chi non prende parte alla guerra; dai feriti, dalla popolazione civile. Senza questa chiara divisione è impossibile fare rispettare il diritto internazionale umanitario. A gettarmi nello sconforto e a preoccuparmi è proprio il mancato rispetto del diritto internazionale umanitario.

In questo momento è ancora possibile soccorrere la popolazione civile in Siria?
I bisogni umanitari in Siria sono giganteschi. Stando alle stime, questo Paese conta circa 18 milioni di abitanti. 13 milioni dipendono dall’aiuto umanitario, di cui 6,8 milioni sono profughi interni. Gli attori umanitari hanno enormi difficoltà a prestare aiuto alle vittime poiché non è possibile garantire loro un minimo di sicurezza. Oggi su Aleppo piovono bombe. E anche la popolazione civile si trova spesso la strada sbarrata per accedere all’assistenza sanitaria, ai generi di prima necessità, a un alloggio o a un riparo. Le sfide operative in Siria sono enormi, ma altrettanto smisurati sono i bisogni. È l’impossibilità di soccorrere i milioni di vittime di questo conflitto interminabile a lasciarmi con un senso di frustrazione e di impotenza. 

«Aleppo est sarà totalmente distrutta entro due mesi o due mesi e mezzo, e migliaia di persone saranno morte, mentre noi festeggeremo il Natale». È l’allarme lanciato all’inizio di ottobre dall’inviato speciale dell’ONU Staffan de Mistura. È impossibile trovare una soluzione negoziale prima che questo monito si trasformi in realtà?
La situazione ad Aleppo è molto complessa. Ci sono innumerevoli gruppi armati e altrettanto diversi sono i loro interessi. In questo momento, i protagonisti di questa guerra preferiscono l’urlo delle armi ai negoziati. Secondo le stime, nella parte est di Aleppo vivono circa 200mila persone. Sono prigionieri senza via di scampo, nonostante la creazione di corridoi umanitari per permettere loro di lasciare questa zona della città.

E di sicuro gli attori umanitari non possono fornire una soluzione ai problemi politici… 
È proprio così. Vengo sempre colto da un sentimento contrastante quando il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si occupa di una crisi umanitaria. Gli attori umanitari non hanno bisogno di un mandato da parte del Consiglio di sicurezza. Il loro mandato sono le Convenzioni di Ginevra che definiscono le regole valide per tutti, anche per i contendenti non statali.
Inoltre, quando un politico non sa come risolvere una questione decide molte volte di sostenere un intervento umanitario con il solo obiettivo di dimostrare all’opinione pubblica che si sta impegnando per alleviare le sofferenza dei civili. Ho molto spesso l’impressione che si stia abusando dell’aiuto umanitario.
Dobbiamo tuttavia ricordare che tutte le azioni umanitarie devono essere accompagnate da negoziati politici. In Siria abbiamo assolutamente bisogno di un cessate il fuoco, della pace e questi vanno trovati al tavolo delle trattative.

Da oltre 25 anni è attivo in campo umanitario. Non ha mai pensato di gettare la spugna?
L’aiuto umanitario non ha la pretesa di salvare il mondo. I nostri obiettivi sono più modesti. Ristabilire in soli 3 giorni l’approvvigionamento idrico in un villaggio ad Haiti è per noi un successo. È un contributo che non risolve certo tutti i problemi sull’isola caraibica. Tuttavia il nostro intervento ha fornito acqua potabile agli abitanti di un villaggio, impedendo così la diffusione del colera. Ogni nostro contributo che salva vite, allevia le sofferenze o riduce la miseria è un successo.

Quale unico attore statale, la Svizzera è riuscita a inviare dei convogli umanitari nella regione di Donetsk, in Ucraina. Un bel successo per la diplomazia elvetica. 
Per raggiungere questo traguardo è stato necessario intavolare lunghi e difficili negoziati con Kiev e Donetsk. È il risultato di un’azione ben pianificata, concordata fino nei minimi particolari e comunicata in maniera chiara. Tuttavia è importante mantenere le giuste proporzioni. Anche se grazie al nostro aiuto umanitario milioni di persone possono ora attingere a sorgenti di acqua potabile, la crisi in Ucraina non è risolta. Gli abitanti dei territori controllati dai separatisti sono ancora isolati dal resto del Paese.

Questo esempio ci ricorda che la Svizzera è un attore credibile e stimato a livello internazionale. Secondo quali principi e criteri decide dove e quando sostenere le vittime di una catastrofe naturale o di un conflitto armato? 
Sì, è vero. La Svizzera gode di grande credibilità e le viene riconosciuta un’elevata professionalità. È una stima che ci viene attestata per l’ottimo lavoro che svolgiamo sul campo, ad Haiti, in Ucraina, Yemen o Iraq, solo per citare alcune «zone calde» in cui operiamo.
Quali principi seguiamo per decidere dove inviare i nostri aiuti? Prendiamo a mo’ di esempio il terremoto in Nepal dello scorso anno. La decisione più semplice era quella di inviare la Catena svizzera di salvataggio per localizzare, salvare e prestare le prime cure alle vittime imprigionate sotto le macerie. Dopo un’attenta riflessione abbiamo invece deciso di inviare un team medico di dieci persone che hanno prestato aiuto alle partorienti ed effettuato interventi chirurgici sui bambini nella zona colpita dalla catastrofe. A volte è difficile prendere la decisione giusta con le informazioni frammentarie che arrivano dal luogo del disastro. Prima di tutto dobbiamo comporre una specie di puzzle per avere il quadro della situazione. Soltanto con il lavoro di équipe della direzione d’intervento è possibile prendere le decisioni giuste. 

Con la fine della Guerra fredda si sono accentuati i conflitti armati e le tensioni politiche. Questo nuovo assetto geopolitico come ha influito sul lavoro degli attori umanitari? 
Oggi è diventato molto più complicato per gli attori umanitari operare sul campo. La causa non è però il crollo dell’Unione sovietica e la nascita di un mondo multipolare, bensì il mancato rispetto da parte dei combattenti del diritto internazionale umanitario. Anche in guerra ci sono delle regole. È questo che voleva Henry Dunant più di 150 anni fa. Ma oggi queste regole vengono calpestate dai combattenti statali o non statali. E una guerra che viene combattuta senza regole miete le sue vittime soprattutto tra la popolazione civile. Ed è questa la grande differenza rispetto al passato.

Le regole vengono rispettate soltanto se sono previste delle sanzioni. Troppo spesso i criminali di guerra rimangono impuniti. 
Sì, solo un perseguimento penale dei criminali di guerra può aumentare il rispetto nei confronti del diritto internazionale umanitario. Dobbiamo assolutamente chiamare alla sbarra chi viola queste regole. Solo così sarà possibile proteggere le popolazioni civili. Ma ci vuole naturalmente la volontà politica per farlo.

Lei visita spesso delle zone di crisi. Dov’è stato l’ultima volta e quali impressioni ha portato a casa? 
Alcune settimane fa sono stato nei territori in cui vivono i profughi palestinesi. Durante un viaggio di dieci giorni ho visitato la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, la Giordania, il Libano e infine la Siria. Ho voluto vedere con i miei occhi questa tragedia umana che si consuma ormai da oltre sessant’anni. Mi ha colpito soprattutto la mancanza di prospettive per le giovani generazioni che vivono in questi territori. Sono giovani cresciuti con la guerra e l’occupazione e che hanno provato esperienze traumatiche. Mi fa paura pensare a questa mancanza di prospettive e agli influssi, anche molto pericolosi, cui sono soggetti.