Tutto è nato da alcune ciocche di capelli. Ciocche di capelli ribelli scappate dall’hijab, il funebre lenzuolo nero con cui tutte le donne iraniane sono obbligate a coprirsi. Ciocche di capelli di cui Mahsa Amini, ventidue anni appena compiuti, non si era forse nemmeno accorta. Sono bastate, però, a farla arrestare. Spinta a calci, pugni e schiaffi dentro alla macchina della «polizia morale» che l’ha portata in centrale. Mahsa è morta poche ore dopo, durante un «training di rieducazione all’uso corretto dell’hijab». Per un attacco di cuore, sostiene la polizia. Per le botte ricevute, dice il fratello. Che aspettava fuori dal posto di polizia: ha sentito la gente urlare, l’ambulanza arrivare, e ha visto, come tutto il mondo poche ore più tardi, Mahsa in ospedale, intubata, con chiari segni di percosse e sangue che usciva dalle orecchie. Al funerale suo padre ha cacciato via il mullah, il religioso islamico, che voleva celebrare il servizio funebre: «È stato il tuo Islam a denunciarla e ora siete venuti a pregare per lei? Non ti vergogni? L’avete ammazzata per due ciocche di capelli! Prendi il tuo Islam e torna da dove sei venuto!».
Due ciocche di capelli. Due scintille che, dopo la morte di Mahsa, hanno dato fuoco alla polveriera che covava, nemmeno tanto silenziosa, sotto la cenere. Due ciocche di capelli che hanno fatto da esca alimentando una serie di rimostranze: per un’economia al collasso, una corruzione sfacciata, una repressione soffocante e restrizioni sociali imposte da un manipolo di anziani chierici ammuffiti. Sono state le donne, a cominciare. Togliendo l’hijab e buttandolo dentro a un fuoco, fuochi accesi un po’ dappertutto nel Paese, davanti a poliziotti attoniti. Tagliandosi i capelli in piazza e postando i video sui social media.
È dal 1979, due anni dopo la presa del potere da parte dei mullah ultraconservatori, che l’hijab è stato imposto a tutte le donne e le ragazze sopra i 9 anni per «proteggerne l’onore e la castità» come vuole la Sharia, la legge islamica di stretta osservanza. E da un anno a questa parte, da quando Ebrahim Raisi è diventato presidente, l’applicazione delle rigide regole sociali e religiose è stata ulteriormente rafforzata. A luglio il presidente ha ordinato a tutte le «entità e istituzioni responsabili» di elaborare una strategia per intensificare l’applicazione dell’hijab. Le violazioni, ha detto, danneggiavano i valori della Repubblica islamica e «promuovevano la corruzione».
Il procuratore capo dell’Iran si è dichiarato favorevole a impedire alle donne impropriamente coperte di accedere ai servizi sociali e governativi, compresa la metropolitana. Il Ministero della Guida suprema ha ordinato ai cinema di non mostrare più le donne nelle pubblicità. Come in Afghanistan, dove la Sharia è stata re-imposta dal gruppo di terroristi al Governo e dove gli esseri di sesso femminile seguono la medesima sorte. Le proteste che adesso infiammano l’Iran, che ormai non riguardano più soltanto le donne e l’hijab, vengono riportate e commentate da tutti i media del mondo. Christiane Amanpour, famosa giornalista americana, si è rifiutata di indossare il velo per intervistare il presidente Raisi, che non si è presentato. La stessa Amanpour che però, qualche mese fa, aveva la testa «modestamente» coperta per intervistare il terrorista talebano Sirajuddin Haqqani. Motivando la sua scelta con il «rispetto per la tradizione e la legge del Paese», visto che l’intervista avveniva in Afghanistan. Però – nel 1979 a Tehran – Oriana Fallaci riportava il suo incontro con il padre della rivoluzione islamica Khomeini: «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non riguardano voi occidentali. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene». «Prego?». «Ho detto: se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene». «Grazie, signor Khomeini. Lei è molto educato, un vero gentiluomo. La accontento sui due piedi. Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da Medioevo». Lo stesso «cencio da medioevo» verso il quale noi, l’Occidente, abbiamo da anni un atteggiamento pilatesco. Pronti a protestare contro gli ayatollah e i talebani, ma anche a difendere la «scelta» delle donne musulmane di indossarlo. Pur sapendo benissimo – come testimoniano iraniane, saudite e afghane – che l’hijab non è una scelta. Non lo è quasi mai. Non è una scelta a nove anni, non lo è dopo.
Come non era una scelta, fino a una cinquantina di anni fa, il lutto stretto – quasi un hijab di fazzoletti che copriva metà del volto e spesse calze nere anche nelle estati più bollenti – delle vedove del sud Italia. La cosiddetta «scelta» era dettata dalla pressione sociale, dai condizionamenti con cui le donne venivano cresciute. Da una società patriarcale che considerava sovversivo e pericoloso il corpo delle donne. Era dettata, come l’hijab nei Paesi di cui sopra, dalla paura: paura della legge o dell’ostracismo di vicini, parenti e amici. L’hijab, prima che sul corpo, viene imposto al cervello. L’hijab è la conseguenza e il segno più evidente di regole arcaiche che noi, nelle nostre città, ci ostiniamo a difendere per «rispetto della cultura altrui».
La cultura dell’hijab, dell’onore e della decenza è quella che a Novellara, Italia, ha ucciso Saman Abbas. Saman che, di origine pakistana ma cresciuta nella vicina Penisola, voleva vivere libera da condizionamenti. Saman, ammazzata dalla sua famiglia perché non si conformava alle regole primitive dettate dai suoi genitori. Saman, che rifiutava un matrimonio combinato e l’abbigliamento appropriato. Saman, i cui genitori sono scappati in Pakistan e di cui il Pakistan rifiuta l’estradizione perché, nemmeno troppo in fondo, approva i principi in base ai quali la ragazza è stata uccisa. Fallaci aveva ragione quando parlava di islamo-fascismo. Un fascismo più nero del nero, nero come la mezzanotte, nero come gli hijab e i burqa imposti alle afghane. Non c’è rispetto, né onore, né protezione nei frutti avvelenati di una religione arcaica imposta alle donne. Non c’è rispetto né onore nelle leggi della Sharia che, per esempio, impongono in caso di stupro quattro testimoni maschi e musulmani, altrimenti la donna violentata viene imprigionata come adultera.
«Con una spallata lasciai andare il chador che si afflosciò sul pavimento in una macchia oscena di nero», raccontava Oriana Fallaci. «Quel che accadde dopo resta nella mia memoria come l’ombra di un gatto che prima se ne stava appisolato a ronfare e d’un tratto balza in avanti per divorare un topo. Si alzò con uno scatto così svelto, così improvviso, che per un istante credetti d’esser stata investita da un colpo di vento. Poi, con un salto altrettanto felino, scavalcò il chador e sparì». Donne e ragazze iraniane ci stanno provando, a far sparire l’ombra nera che gli pesa sul cuore e sull’intera esistenza. Aiutiamole, davvero, a far diventare quel colpo di vento una tempesta. Senza fare distinguo, senza applicare le ragioni della politica al corpo delle donne. Perché Mahsa e le altre non siano morte invano, e una ciocca di capelli rimanga soltanto una ciocca di capelli.