Il primo ad arrivare a Tokyo, la scorsa settimana, è stato Emmanuel Macron. Il presidente francese ha unito alla missione per la riunione del G20 di Osaka una visita di stato in Giappone, la prima da quando è stato eletto presidente. Macron ha avuto un colloquio con il primo ministro giapponese Shinzo Abe, e con lui ha rinnovato la necessità di stringere un’alleanza ancora più forte per «una libera e aperta regione dell’Indo-Pacifico». La strategia dell’Indo-Pacifico è il nuovo mantra della politica estera giapponese, una specie di progetto a lungo termine – soprattutto di sicurezza marittima – che vorrebbe essere un’alternativa al mastodontico progetto d’influenza cinese della Nuova Via della Seta. Non è un caso se il primo ad aderire all’alternativa atlantista a guida giapponese sia stato l’Eliseo: all’inizio del suo mandato presidenziale, Macron si era avvicinato a Pechino, anche grazie a un viaggio ufficiale fatto nella capitale cinese nel gennaio del 2018.
Poi però la politica estera francese è cambiata, e Macron si è trasformato in un falco anticinese, accusando l’Europa di essere «troppo ingenua» nei suoi rapporti con Pechino. Il presidente francese è stato l’unico leader europeo che durante la visita di stato del presidente Xi Jinping in Europa, a fine marzo, ha messo sul tavolo la questione dei diritti umani in Cina. Ma se l’Europa finora non è riuscita a mettere d’accordo gli Stati membri su una politica estera condivisa da avere con la Cina, anche quest’ultimo G20 ha avuto i suoi momenti più importanti negli incontri bilaterali, più che nelle riunioni plenarie. Viviamo nell’èra del bilateralismo, soprattutto da quando Donald Trump è arrivato alla Casa Bianca e ha cercato di portare il metodo del businessman nei rapporti internazionali. I leader dei venti più importanti paesi della comunità internazionale si sono incontrati a Osaka, la capitale commerciale del Giappone, e come spesso accade ultimamente, nonostante le foto di famiglia di rito, le decisioni più importanti per il resto del mondo sono state prese durante gli incontri a porte chiuse.
Qualche giorno prima della cerimonia d’apertura del G20, Bloomberg ha pubblicato uno scoop che ha fatto cadere dalla sedia il primo ministro giapponese Shinzo Abe, cioè il padrone di casa. Secondo alcune fonti anonime, il presidente Trump avrebbe parlato più volte, in privato, di voler cancellare il trattato di mutua difesa tra America e Giappone – un patto di sicurezza strategica che fu firmato alla fine della Seconda guerra mondiale tra Washington e Tokyo e che sancì l’inizio di un’alleanza finora indissolubile. Secondo Trump il patto sarebbe sbilanciato: l’America è infatti obbligata a intervenire in difesa del Giappone nel caso fosse attaccato, ma non obbliga il Giappone a intervenire in difesa dell’America.
C’è un motivo tecnico: la Costituzione giapponese scritta nel Dopoguerra, all’articolo 9 vieta a Tokyo di avere un esercito regolare, ma solo Forze di autodifesa. Il segretario di gabinetto del governo nipponico, Yoshihide Suga, ha detto ai media che il trattato non era stato mai messo in discussione, proprio perché è su quello che si basa l’alleanza tra i due Paesi. Il presidente americano, però, non sembra essere d’accordo, e lo ha criticato anche qualche giorno dopo in un’intervista alla Fox: «Quasi tutti i paesi si avvantaggiano enormemente dall’esercito degli Stati Uniti. Ma se qualcuno ci attacca, i giapponesi possono assistere alla Terza guerra mondiale comodamente dalla loro televisione Sony». Nonostante Shinzo Abe le abbia tentate tutte per accomodare e compiacere il presidente Trump, pare non siano bastate le ore di partite di golf organizzate durante l’ultimo incontro tra i due, e aver dato al presidente americano il privilegio di essere il primo leader straniero a ricevere udienza dal nuovo imperatore giapponese Naruhito. Come per molti altri tradizionali alleati dell’America, anche con il Giappone la situazione è sempre più tesa per via della politica commerciale della Casa Bianca. La minaccia di Trump di mettere dazi sempre più consistenti sulle auto d’importazione, se si verificasse, sarebbe un danno enorme per le esportazioni nipponiche.
La politica dell’America First di Trump ha costretto il Giappone a ripensare la sua politica estera, e se fino a qualche anno fa il nemico numero uno di Tokyo era la Cina, oggi le cose non stanno più così. La famosa fotografia del summit Apec del 2014, con Shinzo Abe e Xi Jinping che si stringono la mano controvoglia, è diventata un passato lontanissimo giovedì scorso quando il presidente cinese è atterrato in Giappone – e non succedeva dal 2010, l’anno in cui i rapporti tra i due paesi si erano ridotti ai minimi termini. «Le relazioni tra Giappone e Cina sono tornate alla normalità», ha detto Abe qualche mese fa, un’affermazione confermata in questi giorni. Tanto che, tra i funzionari del Ministero degli esteri giapponese, qualcuno azzarda la possibilità di un cambiamento anche nella valutazione del progetto della Nuova Via della Seta cinese: da minaccia per la stabilità asiatica a un’opportunità di cooperazione.
Fino a oggi, ogni volta che a Shinzo Abe è stato assegnato il ruolo di negoziatore è stato il Giappone a perderci di più. A quarant’anni dall’ultima visita, a metà giugno il premier giapponese ha viaggiato in Iran nel tentativo di mediare tra Teheran e Washington sul dossier nucleare. Mentre si svolgevano i colloqui, due petroliere (di cui una giapponese) sono state attaccate nello Stretto di Hormuz, e Abe è tornato a Tokyo senza alcuna apertura di dialogo da parte dell’Iran. Poche ore dopo un drone americano è stato abbattuto, e Trump stava per lanciare l’attacco contro Teheran, annullando definitivamente ogni tentativo di negoziazione. Anche sulla pace commerciale tra America e Cina, Shinzo Abe sa che il ruolo di mediatore non può essere affidato a nessuno. Mentre i due giganti continuano a sfidarsi, sul piano del commercio e quello della tecnologia, il resto del mondo non può fare altro che contenere i danni: una lezione che Shinzo Abe ha capito benissimo, soprattutto dopo questo G20.