Comunque vada il referendum del 16 aprile, quando i turchi decideranno se accordare o meno al presidente Recep Tayyip Erdogan gli amplissimi poteri previsti dalla sua riforma, una cosa è certa: fra la Turchia e l’Unione Europea la distanza si è fatta lunghissima, forse incolmabile. Già pregiudicate da tempo, si allontanano ancor più le prospettive di adesione della Turchia alla comunità dei Ventisette. È questa l’inevitabile conseguenza della svolta politica voluta dal presidente turco e della crisi esplosa fra Ankara e alcuni Stati europei. Tutto è nato da un’esigenza di consenso elettorale. Poiché i sondaggi davano in forse il successo in patria, Erdogan ha voluto puntare le sue carte sulla consistente frazione di elettorato che risiede al di fuori dei confini nazionali, soprattutto concentrata in Germania, Francia e Olanda. Sono oltre due milioni di elettori, in maggioranza favorevoli al partito di Erdogan, l’Akp, e dunque potenzialmente inclini al sì nel referendum di aprile. Di qui la decisione di esportare verso quei lidi la campagna elettorale.
Lo spregiudicato sultano di Ankara sapeva perfettamente che nell’Europa alle prese con la questione migratoria e attraversata da forti correnti di risentimento anti-stranieri, avrebbe toccato un nervo scoperto. Tanto meglio: lo scontro gli permetterà di compattare gli indecisi, in patria e fuori, attorno alla sua proposta, usando la difesa della dignità nazionale, l’orgoglio dell’appartenenza etnica. Per questo, non appena Germania e Olanda gli chiudono le porte in faccia negando l’agibilità dei loro territori ai comizi turchi, alza i toni oltre ogni limite, arrivando ad accusare i due Paesi di razzismo, nazismo, islamofobia. E quando il suo ministro degli Esteri, Mevlüt Cavusoglu, dopo che gli è stato impedito di atterrare a Rotterdam, può esercitare in Francia il diritto negato dagli olandesi intrattenendo a Metz una folla di connazionali, non esita a ringraziare pubblicamente Parigi, suggerendo l’immagine di un’Europa ostile ma al tempo stesso divisa, dunque inaffidabile.
Poi la ministra per la famiglia Fatma Betül Sayan Kaya, che come Cavusoglu voleva far campagna in Olanda, viene riaccompagnata alla frontiera. Erdogan infuriato ribadisce le accuse e minaccia sanzioni, anche contro l’Unione Europea che attraverso il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker parla di «commenti vergognosi». Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato di cui la Turchia è il pilastro affacciato sul Medio Oriente, invita le parti al rispetto reciproco. Queste reazioni relativamente pacate si spiegano sia col desiderio di non fare il gioco di Erdogan incoraggiando la risposta emotiva degli elettori turchi, sia col timore che il sultano possa denunciare il patto che lo impegna a bloccare sul suo territorio i flussi migratori diretti verso l’Europa. Anche Angela Merkel reagisce con diplomatica compostezza, ma non senza definire «problematico» l’approccio turco alla democrazia. Berlino autorizza tredici sedi per il voto: i turchi della Germania potranno partecipare al referendum. Sole condizioni: trasparenza e ordine.
Ma ormai la crisi si è allargata e la disponibilità francese rimane una solitaria eccezione: l’Austria rifiuta di autorizzare eventi elettorali della minoranza turca, la Danimarca posticipa una visita a Copenhagen del primo ministro di Ankara Binali Yildrim. La riluttanza europea ad ospitare la campagna elettorale di Erdogan si estende al fuori dell’Unione: anche in Svizzera ci sono resistenze a concedere spazio ai comizi turchi. I toni si fanno sempre più aspri nei confronti dell’Olanda, irrompendo nella vigilia del voto parlamentare che vedrà il primo ministro Mark Rutte, favorito proprio dalla crisi con la Turchia, contenere l’offensiva anti-europeista e anti-migranti di Geert Wilders e del suo Partito della libertà, che manca il temuto sfondamento con grande sollievo a Bruxelles. Erdogan rispolvera un argomento spinoso per L’Aja, il massacro nel 1995 di ottomila musulmani a Srebrenica da parte dei miliziani serbo-bosniaci del generale Ratko Mladic, che un battaglione olandese di caschi blu non seppe impedire. Il sultano usa parole di fuoco: Srebrenica dimostra che gli olandesi sono marci. Rutte rispedisce al mittente la richiesta di scuse avanzata da Ankara, mentre il suo vice Lodewijk Ascher dichiara di considerare disgustoso essere tacciati di nazismo da chi è così deficitario in materia di diritti umani.
Questo rilievo collega la crisi con l’annosa questione della candidatura turca all’Unione Europea. Le politiche sempre più muscolari di Erdogan, la sua deriva autoritaria, non fanno che complicare ulteriormente un negoziato da sempre arduo e accidentato: da una parte l’Unione chiede che si rispettino i diritti, per esempio della minoranza curda, dall’altra Ankara accusa gli europei d’ingerenza. Contribuisce ad avvelenare i rapporti la questione armena, cioè il mancato riconoscimento da parte turca del genocidio compiuto un secolo fa contro quella minoranza. Lo scorso luglio l’atmosfera in Turchia improvvisamente s’infiamma, con il mancato golpe militare e la durissima repressione ordinata da Erdogan, che considerando mandante il politologo esule Fethullah Gülen rinchiude nelle carceri, appositamente sgombrate da migliaia di detenuti comuni, quarantamila «gulenisti» o presunti tali, mentre 125 mila funzionari pubblici sono sospesi e la stampa viene sottoposta a un’asfissiante pressione. Nuovi attriti con Bruxelles, accusata di avere esitato a manifestare la sua solidarietà al regime preso di mira dai golpisti.