Alta tensione fra Roma e Parigi

Quai d’Orsay – Hanno suscitato polemiche le accuse di Di Maio a Parigi di trattare ancora molti paesi dell’Africa alla stregua di colonie e quindi di contribuire al fenomeno migratorio
/ 28.01.2019
di Alfredo Venturi

La vita si fa difficile per i diplomatici italiani: per esempio non dev’essere stato facile per Teresa Castaldo, ambasciatrice a Parigi, spiegare al Quai d’Orsay le parole del vicepresidente Luigi Di Maio. Rappresentando il governo di Roma, ovviamente questa sperimentata diplomatica non poteva sottrarsi alla convocazione da parte di un irritatissimo esecutivo francese. Che cosa aveva combinato Di Maio, del resto spalleggiato da un altro rappresentante dei Cinquestelle, il loquace Alessandro Di Battista? Aveva sostenuto che la Francia è responsabile della crisi economica e sociale dell’Africa francofona, e dunque del contributo di quei paesi al fenomeno migratorio. Il vicepresidente aveva accusato Parigi di perdurante colonialismo citando il franco CFA, la moneta che circola in una quindicina di paesi.

Il CFA è la moneta della comunità franco-africana, fu creata negli anni della decolonizzazione, a suo tempo era ancorata al franco francese, e permette ai paesi nei quali circola, ex colonie di Parigi, un minimo di stabilità finanziaria. In cambio della garanzia francese (il CFA è legato all’euro al cambio di 0,0015), quei paesi affidano in custodia alla Banca di Francia metà delle loro riserve. Come non si manca di far notare a Parigi, e come certamente è stato ribadito all’ambasciatrice Castaldo, il tutto è su base volontaria. Se uno dei quattordici paesi che attualmente usano il CFA intende uscire dal sistema e stamparsi una moneta propria è liberissimo di farlo. Ma per Di Maio e Di Battista il CFA non è altro che una «moneta coloniale»: non sorprende affatto che il governo francese, a cominciare dal presidente Emmanuel Macron, l’abbia presa piuttosto male, fino a convocare «per spiegazioni» l’ambasciatrice italiana.

Del resto non è la prima volta che fra il governo giallo-verde di Roma e il vertice francese scoccano vistose scintille. Lo stesso Di Maio si è prodotto qualche giorno fa in un altro attacco alla Francia macroniana, schierandosi senza esitazione accanto ai gilets jaunes, vera spina nel fianco per l’inquilino dell’Eliseo. Un episodio come questo non poteva passare sotto silenzio: sono rari i precedenti di un politico con responsabilità governative che dichiara di sostenere un movimento di opposizione radicale, a tratti violenta, a un governo alleato e teoricamente amico. Ma così sono i Cinquestelle, e del resto non sono da meno gli alleati leghisti della coalizione. Non prendiamo lezioni da Macron, ha detto l’altro vicepresidente del governo di Roma, Matteo Salvini, che com’è noto è abituato a parlare fuori dai denti.

Naturalmente c’è dell’altro in questo dissidio che induce alla ricerca dei più vari precedenti storici. Si risale facilmente al Misogallo di Vittorio Alfieri, alle insurrezioni sanfediste contro i giacobini, si riesuma addirittura il De Bello Gallico. Alle spalle di tutto questo ci sono i respingimenti verso la frontiera italiana dei clandestini che bene o male erano riusciti a raggiungere l’Esagono, ci sono i bisticci sulla chiusura dei porti all’approdo dei migranti. Ogni tanto, quando una nave carica di disperati incrocia davanti alle coste italiane ormai inospitali per decreto governativo, qualcuno cerca il modo di spedirla a Marsiglia. Se la vedano loro, con questi africani che hanno contribuito, attraverso il neo-imperialismo della «moneta coloniale», a spingere verso l’Italia. Tocca una volta ancora a Giuseppe Conte, il presidente del consiglio costretto ad acrobatiche manovre dialettiche, il compito di tentare la ricomposizione della vertenza: ma no, quando mai, l’amicizia franco-italiana è salda, è ormai un dato acquisito...

La sparata del garrulo Di Maio viene accolta con disagio anche a Bruxelles, dove il commissario Pierre Moscovici, un economista francese che fu ministro a Parigi e oggi manovra i fili del dibattito sull’osservanza della disciplina di bilancio, commenta in modo pacato ma fermo: parole inappropriate. Certo non servono ulteriori stimoli per appesantire il rapporto fra Roma e le istituzioni dell’Unione Europea, avvelenato dalla diatriba sul rispetto delle regole comuni in materia finanziaria. Ma l’attivismo verbale di Di Maio e Di Battista ha una spiegazione molto chiara: gli alleati della Lega continuano a guadagnare consensi a loro spese, e dunque i grillini hanno bisogno di un bersaglio contro il quale scagliare i loro colpi polemici e recuperare popolarità. E quale miglior bersaglio del povero Macron, investito dalla bufera dei gilet gialli fermamente intenzionati, come si leggeva su uno dei loro manifesti, a démacroniser la France?

Ma lui, l’uomo che deve la presidenza alla grande paura nazionale di vedere installata all’Eliseo Marine Le Pen (un’amica di elezione, fra l’altro, del vicepresidente italiano Salvini), mette in campo le sue contromisure. Mentre a Parigi si celebrava il rito burocratico dell’ambasciatrice convocata al Quai d’Orsay, eccolo al solenne rilancio, nella cornice di Aquisgrana cara al ricordo di Carlomagno, dell’amicizia fra Parigi e Berlino. Il trattato sottoscritto da Emmanuel Macron e Angela Merkel ridisegna l’Europa in chiave franco-tedesca e ripropone la svolta a suo tempo impressa alla storia da Charles De Gaulle e Konrad Adenauer, e più tardi ribadita da François Mitterrand e Helmut Kohl. In stretto contatto con una Germania amica e paladina, il presidente francese può guardare con qualche sollievo all’offensiva dei gilet gialli, e con glaciale sufficienza a un’Italia sempre più isolata e alle intemperanze verbali dei suoi incauti governanti.