Districare quarant’anni e passa di storia comune è un compito che manderebbe nel panico anche il più scaltro degli avvocati divorzisti, soprattutto quando, come nel caso della Brexit, i toni si fanno accesi e le richieste esorbitanti fin dalle prime battute. Tra Londra e Bruxelles iniziare peggio era quasi impossibile. A poco più di un mese dall’invio della lettera con cui la premier Theresa May ha chiesto di avviare i due anni di negoziato di uscita, sia lei che le sue controparti europee hanno infranto molte delle regole della diplomazia per accendersi subito di dichiarazioni forti, perfette per riempire i titoli dei giornali in questo periodo di campagna elettorale. Tutto è iniziato con una cena a Downing Street con il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, andata talmente male secondo quest’ultimo che la mattina dopo alle 7,30 era già al telefono con la cancelliera tedesca Angela Merkel per raccontarle quanto distaccata dalla realtà gli fosse apparsa la premier britannica nelle sue richieste sulla Brexit. I dettagli della serata sono stati poi raccontati con dovizia di particolari alla stampa tedesca, mentre la May cercava di ridimensionare le voci di un incontro totalmente fallimentare. Le giornate successive sono state un crescendo di dichiarazioni roventi che hanno raggiunto il culmine quando la May ha definito quelle di Bruxelles «minacce» volte a «incidere in maniera deliberata sul risultato delle elezioni generali dell’8 giugno».
Fra le richieste della May a Bruxelles, sono due quelle che hanno suscitato più stupore, ossia la volontà di negoziare un accordo commerciale nei due anni scarsi in cui si definirà l’uscita di Londra dalla Ue e la riluttanza a discutere del conto da saldare per uscire dal club europeo: un minimo di 60 miliardi di euro per programmi già sottoscritti, tra cui i pagamenti alla Turchia e all’Ucraina, le pensioni di funzionari britannici e i versamenti alla Banca centrale europea e alla Banca europea degli investimenti, e un massimo di 100 miliardi di euro se si considerano anche i pagamenti agli agricoltori, come chiesto da Francia e Polonia, e si esclude, come suggerito dalla Germania, una restituzione di alcuni asset europei come la collezione d’arte, il portafoglio immobiliare da 8,7 miliardi di euro e, a sorpresa, una cantina di vini da 42mila bottiglie. Una pretesa ambiziosa, che ha subito suscitato le ire di Londra. «Non pagheremo 100 miliardi di sterline», ha detto il ministro per la Brexit David Davis, un falco euroscettico che Bruxelles reputa inadeguato per le trattative.
Sul primo punto, la risposta europea è stata semplice: alla May sono state consegnate le duemila pagine che contengono gli accordi commerciali raggiunti con il Canada in un negoziato durato dieci anni. «La posizione negoziale del Regno Unito è stata raccontata in maniera deformata nella stampa continentale», ha spiegato la May, accusando «alcuni a Bruxelles» di volere un fallimento delle trattative. «Continuiamo a pensare che sia meglio non avere nessun accordo che averne uno cattivo», ha aggiunto, tornando a ventilare l’ipotesi di dover ricorrere ai termini del Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, negli scambi futuri con l’Unione europea qualora non si raggiungesse alcuna intesa con i partner. Una soluzione estremamente penalizzante a cui la May è tornata a far riferimento nella speranza di apparire meno bisognosa di raggiungere un accordo a tutti i costi. «Ma vogliamo un accordo. Vogliamo una relazione profonda e speciale con l’Unione europea», ha assicurato.
Tornando al tema degli interlocutori, è proprio su quello che è emersa un’altra delle perfidie che la Ue ha deciso di riservare alla May: niente comunelle nei corridoi di Bruxelles con capi di Stato e di governo, la Brexit verrà discussa solo ed esclusivamente con il francese Michel Barnier, negoziatore capo europeo ed ex commissario per il Mercato interno inviso a Londra. «Alcuni hanno creato l’illusione che la Brexit non avrà nessun impatto materiale sulle nostre vite e che i negoziati possano essere condotti rapidamente e in maniera indolore», ha subito messo in chiaro Barnier nel corso di una conferenza stampa, ricordando come occorra trovare soluzioni legali precise ad ogni problema e come, soprattutto, l’accordo economico sia un prerequisito di ogni trattativa da qui al marzo 2019, quando Londra uscirà dalla Ue, e che una soluzione si potrebbe trovare già nell’ottobre o novembre prossimo. L’ordine di scuderia è preciso: dare della May l’immagine di quella che vive su un altro pianeta se pensa di poter uscire indenne da questo processo.
Oltre al suo aver creato illusioni presso un’opinione pubblica che, in mancanza di alternative, è pronta a rieleggerla, la May, nei circoli europei, sarebbe accusata di «non fare la cosa britannica» quando si allontana dal pragmatismo tipico dei governi londinesi. Di essere una «donna tremendamente difficile» se lo è detta da sola, e dal presidente Juncker ha ottenuto solo una risposta diplomatica e impeccabile: «Non uso questa retorica, perché in traduzione il senso può cambiare. Rispetto profondamente la premier britannica e mi piace come persona. Ho notato che è una donna tosta». Il tentativo della May di personalizzare lo scontro tra Londra e Bruxelles, dando all’elettorato quella sensazione di essere perseguitati da un’eurocrazia profondamente antibritannica a cui solo lei sa tenere testa, finora si è scontrato contro un muro di puntiglio e inflessibilità perfetto per raggiungere i suoi scopi, almeno per ora. E i giornali britannici le sono andati dietro: «Giù le mani dalle nostre elezioni», titolava il «Daily Mail», mentre il tabloid «The Sun», sempre efficace, urlava «Nuclear Juncker».
Al di là delle scintille, entrambe le parti hanno interesse ad alzare i toni della discussione in questa fase incandescente, tra elezioni francesi e voto del Regno Unito. La May conosce bene i benefici elettorali legati all’evocazione di una donna britannica con un carattere difficile che tiene testa a Bruxelles – uno dei ricordi più vividi di Margaret Thatcher è il suo «no, no, no» ad un aumento dei poteri centrali europei – e sa che più teatrale è lo scontro, più efficace la sua interpretazione agli occhi di un elettorato che ha bisogno di essere rassicurato in quello che resta, in qualunque modo la si pensi, un gigantesco salto nel buio. Per Bruxelles i vantaggi di uno scontro acceso sono ancora più numerosi. Il primo è quello di mostrare i muscoli a livello mondiale ma anche, e soprattutto, a livello europeo, per raggiungere l’evidente scopo di non incoraggiare altre Brexit. Il secondo è di propiziare una vittoria della May, che comunque resta l’interlocutore più credibile nell’attuale panorama politico britannico, oltre ad essere una delle poche politiche ad avere attrattive sia agli occhi delle élites che a quelli del cosiddetto «Paese reale». Se uscirà rafforzata da questo voto, avrà il potere per tenere testa agli eurofobi oltranzisti del suo partito, quelli che, per dirla con Juncker, vivono davvero in un’altra galassia. Solo così potrà avere le mani abbastanza libere da essere pragmatica e raggiungere risultati ragionevoli senza pressioni e accuse di illegittimità.
In questo inizio di negoziato, Bruxelles ha raggiunto un altro risultato da non sottovalutare, anche se andrà consolidato nel tempo. Ha esibito agli occhi del mondo un modo di procedere compatto che non si vedeva da tempo e di cui aveva disperato bisogno. Inoltre i toni accesi della discussione gli hanno permesso di uscire dal girone infernale delle dichiarazioni tecniche e di farsi largo nel dibattito pubblico con ben altra efficacia. Come ha notato il potentissimo capo di gabinetto di Juncker, Martin Selmayr, «la Brexit non sarà mai un successo, è un evento triste e spiacevole» che ha come unico vantaggio «quello di poter essere gestito in maniera professionale e pragmatica». Una mezza verità che nasconde a malapena il fatto che la Ue, in questo processo, si sta dimostrando più politica e coesa che mai. In fondo, niente unisce i popoli come un buon nemico comune.