Fei Fei è una ragazzina che perde la madre per una malattia. Decide di arrivare sulla luna, dove risiede la dea di cui la mamma le parlava sempre: Chang’e. Inizia un’avventura spaziale in cui si canta e si trova l’amore. Over the Moon – Il fantastico mondo di Lunaria, distribuito cinque mesi fa da Netflix, quest’anno è addirittura candidato agli Oscar come miglior film d’animazione. La trama è semplice e immediata, ma questo film ha qualcosa di simbolico. Anzitutto perché è tra le poche coproduzioni tra America e Cina, e fa parte di quel tentativo di Hollywood di lavorare con la Cina per inserirsi nel mercato cinematografico del Dragone. Ma soprattutto perché è la prima volta che l’America produce un film di celebrazione e di propaganda di Pechino.
Da anni il Partito comunista cinese sta cercando di fare quello che ormai parecchio tempo fa faceva la Nasa in America: trasformare le ambizioni spaziali del governo in orgoglio nazionale. Per decenni isolata dalla cooperazione spaziale a guida occidentale, negli ultimi dieci anni la Cina ha accelerato su tutti i suoi progetti al di là dell’orbita terrestre, con enormi investimenti e con l’obiettivo di dimostrarsi una potenza che può fare concorrenza agli Stati Uniti anche nello spazio. Da un lato c’è la capacità tecnologica e di deterrenza, soprattutto su quei componenti definiti dual use, che possono essere usati per scopi civili ma anche di Difesa – per esempio, quando un paese ha la capacità di lanciare un satellite, vuol dire che ha anche un arsenale missilistico adeguato Dall’altro lato, sin dalla Corsa allo spazio durante il periodo della Guerra fredda, i programmi spaziali hanno assunto significati più estesi: le missioni esplorative ultraterrene vengono accompagnate da retorica trionfalistica e propagandistica e sono l’espressione della competizione tra potenze, ma aiutano anche ad aumentare il nazionalismo interno.
In Over the moon la dea della Luna è Chang’e, cioè lo stesso nome che è stato assegnato anche alle missioni sulla Luna dell’Agenzia nazionale cinese per lo spazio (abbreviata in Cnsa).
Ma c’è di più. È vero che la comunicazione al grande pubblico passa per il grande schermo, ma a volte sembra quasi che i programmi scientifici cinesi prendano ispirazione dai romanzi di fantascienza. La capacità di Pechino di pensare in grande e in modo visionario è legata al fatto che la leadership autoritaria di Xi Jinping non conosce dissenso ed è il governo a decidere le priorità, senza bisogno dell’approvazione dei cittadini – per fare un paragone, sin dal disastro del Challenger, nel 1986, il budget della Nasa è stato progressivamente ridotto, proprio perché è iniziato a mancare il supporto della popolazione alle costosissime missioni spaziali.
Per la Cina ormai non si tratta più di esplorazione dello spazio, ma di colonizzazione. Neanche un mese fa l’agenzia spaziale cinese ha annunciato un accordo strategico con l’agenzia spaziale russa, la potente Roscosmos, che a differenza di quella di Pechino ha un posto nella Stazione spaziale internazionale, il grande progetto post-Guerra fredda di coinvolgimento dell’ex Unione Sovietica negli affari internazionali. La cittadella internazionale per la ricerca scientifica, abitata ininterrottamente sin dal 1998, sta per andare in pensione, e nessuno dei paesi coinvolti (America, Canada, Unione Europea, Russia, Giappone) riesce ad allocare nuovi investimenti per rinnovarla. Al contrario, dal 2013 Pechino lavora al suo «Programma Tiangon», che consiste nell’assemblaggio in orbita bassa di una nuova stazione spaziale a guida cinese che dovrebbe essere operativa entro il 2022. Tiangon è il primo passo verso il vero obiettivo di Cina e Russia: creare una stazione intermedia che permetta di costruire una base operativa permanente sulla Luna. L’International Scientific Lunar Station sarà «aperta alla cooperazione di altri paesi», hanno spiegato in un comunicato congiunto le agenzie spaziali di Cina e Russia, ma la pianificazione, la progettazione, lo sviluppo e il funzionamento della stazione sarà responsabilità di Pechino. Finora la Cina ha dato prova di grande determinazione nel progetto: nel gennaio del 2019 Chang’e numero 4 ha esplorato il «lato oscuro» della Luna, cioè il lato del satellite che non era mai stato osservato dall’uomo. Neanche due anni dopo, Chang’e numero 5 ha fatto camminare un robot sulla superficie lunare e ha riportato per la prima volta dal 1976 circa due chilogrammi di campioni di suolo lunare. Un passo avanti particolarmente significativo rispetto alla missione Artemis lanciata dall’Amministrazione Trump, che vorrebbe riportare l’uomo sulla luna entro il 2024. Il progetto americano è più un’operazione d’immagine che di sostanza. Mentre per Pechino l’interesse per le missioni lunari ha un obiettivo specifico: le risorse naturali di cui dispone la Luna. In questo momento la Cina ha un sostanziale monopolio della produzione delle cosiddette terre rare, cioè quegli elementi che servono alla costruzione dei dispositivi elettronici. Pechino produce circa il 95 per cento del fabbisogno mondiale. Ma secondo diversi studi scientifici, gli elementi che potrebbero essere estratti dal suolo lunare hanno proprietà molto più vantaggiose rispetto a quelle terrestri.