La morte della regina Elisabetta, lo scorso settembre, è stata commentata con accenti molto diversi nella madrepatria e nelle ex colonie di quello che fu, fino alla metà del secolo scorso, il più grande impero che il mondo abbia mai conosciuto. Unanime il cordoglio per la persona della sovrana scomparsa; ma mentre nel Regno Unito la straordinaria partecipazione popolare al lutto è stata considerata un chiaro segno della vitalità della monarchia, molto diversi sono stati gli accenti nei Paesi dove, malgrado la distanza geografica e culturale, l’inglese resta la principale lingua parlata, e anche in quelli per i quali chi siede sul trono di Londra è ancora formalmente il capo dello Stato. A cominciare dall’Australia – dove i governanti hanno fatto velate allusioni alla possibilità che le cose possano cambiare in un futuro non troppo lontano – i legami con la Corona britannica si avviano verso una fase di ripensamento dall’esito incerto. Molti commentatori hanno segnalato che tra i compiti prioritari del nuovo re Carlo III ci sarà quello di mantenere in vita il Commonwealth, l’organizzazione che riunisce 56 Stati appartenuti in passato (con quattro eccezioni) all’Impero, contrastandone le spinte centrifughe.
Gli ultimi viaggi ufficiali di membri della famiglia reale in Paesi del Commonwealth non sono filati molto lisci. In particolare quello di William – all’epoca duca di Cambridge, oggi principe di Galles, cioè primo erede al trono – e di sua moglie Kate nei Caraibi, la scorsa primavera. La visita è stata segnata da proteste e manifestazioni. In Giamaica, in particolare, cento accademici, politici e persone di cultura hanno colto l’opportunità per chiedere ai reali scuse e riparazioni per il passato coloniale e schiavistico. Voci analoghe si levano adesso in Kenya e altrove. La fine dell’Impero britannico viene fatta coincidere formalmente con la consegna di Hong Kong alla Repubblica Popolare Cinese, nel 1997. Ma è come se la straordinaria longevità di Elisabetta II e la conseguente eccezionale durata del suo regno avessero ritardato di quasi un quarto di secolo il tempo dei bilanci. Che adesso sembra arrivato.
Come un sasso in questo enorme stagno del lascito coloniale britannico, così esteso nel tempo e nello spazio, viene a piombare un libro uscito quest’anno, con perfetto tempismo, negli Stati Uniti. Il volume, di quasi 900 pagine, s’intitola Legacy of Violence. A History of the British Empire (Retaggio di violenza. Una storia dell’Impero britannico). La sua autrice, la storica Caroline Elkins, insegnante a Harvard, è una studiosa molto stimata da quando, nel 2005, uscì il suo Britain’s Gulag, una ricostruzione altrettanto ponderosa della repressione della rivolta dei Mau Mau, che negli anni Cinquanta del secolo scorso segnò l’inizio della fine del dominio britannico in Kenya. Proprio da quelle ricerche Caroline Elkins ha proseguito il suo lavoro, arrivando diciassette anni dopo a un’opera di molto maggiori respiro e ambizione, uno sguardo complessivo sull’operato imperiale della Gran Bretagna.
La conclusione di questa colossale impresa storiografica è enunciata senza ambiguità nel titolo: quel che resta dell’impero è una lunga scia di sopraffazione e di violenza, una signoria imposta a intere nazioni senz’altro argomento che la forza delle armi, la repressione poliziesca, carcere e sevizie contro chiunque tentasse di opporsi al dominio del più forte. Brutalità, dalla Palestina al Kenya, dalla Malesia a Cipro. Particolarmente difficili da leggere, in proposito, sono le ricorrenti descrizioni delle torture inflitte ai ribelli che osavano sollevarsi contro l’Union Jack e i suoi agenti coloniali, descrizioni talvolta basate sulle testimonianze degli aguzzini. Si va dalle umiliazioni alle sevizie, alla morte provocata nelle maniere più orrende. In altre pagine si raccontano le operazioni militari contro la popolazione civile. «Procedevamo sistematicamente, di villaggio in villaggio, distruggendo le case, riempiendo i pozzi, abbattendo le torri, tagliando gli alberi, bruciando i raccolti, sfondando i serbatoi […] In capo a quindici giorni la valle era un deserto e l’onore era appagato». Così Winston Churchill descriveva la campagna nel Punjab indiano, nel 1897.
Un’opera della portata di Legacy of Violence non si esaurisce in questa dimensione, anche se essa è certamente dominante. Elkins è ugualmente attenta alle decisioni politiche prese da un’assai lunga serie di governi britannici, e alle implicazioni economiche e geopolitiche dell’impresa imperiale. Ma l’impressione prepotente che si prova sfogliando le centinaia di pagine del libro è quella di un rovesciamento probabilmente irreversibile della narrativa. Nessuno ha mai preteso che la scelta imperiale coloniale fosse libera da una dimensione repressiva, o non poggiasse sull’insostenibile squilibrio dei rapporti di forza militari. Questo tuttavia si ammantava dell’ideologia della missione civilizzatrice, dell’emancipazione dei popoli soggetti, della benevola elargizione di sapere, educazione, sviluppo, ricchezza. Legacy of Violence ribalta il racconto. L’impero coloniale, ci dice, è stato in primo luogo sopruso, oppressione, sfruttamento, prepotenza armata.
Anche questa non è una novità. Nella recensione scritta per il settimanale «The Nation», l’africanista Howard W. French ricostruisce le battaglie della storiografia angloamericana sul colonialismo, i lunghi decenni di negazionismo, le prime revisioni critiche degli anni Sessanta, le successive rivalutazioni del passato imperiale, fino alla nuova generazione di storici che a quel passato non fanno sconti. Il contributo di Caroline Elkins, con autorevolezza, fa ora pendere la bilancia nettamente da questa parte. Il suo libro del 2005 è servito da base all’azione legale intentata con successo contro il Governo britannico dai sopravvissuti dei campi d’internamento in cui furono rinchiusi i ribelli Mau Mau. Questa nuova opera spingerà forse i governanti del Commonwealth a spezzare l’ultimo legame con l’eredità dell’impero.