«Ubi iudicia deficiunt incipit bellum»: questa è la frase incisa sulla facciata della Corte Suprema dell’Aja. La leggo alla vigilia del processo in appello contro Jadranko Prlic ed altri per crimini di guerra e contro l’umanità, mentre mi trovo sul tram che, passando dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ubicata nel «Palazzo di Pace», conduce al Tribunale Internazionale per l’ex Yugoslavia (TPIY). La mente corre alla condanna all’ergastolo di Ratko Mladic per genocidio proferita la settimana prima per fatti occorsi a Srebrenica (Bosnia) nel 1995. Singolare come la linea 16 sembri creare un filo conduttore tra le tre strutture giudiziarie che, seppur con competenze diverse, si sono occupate dei medesimi fatti. La CIG, che giudica le cause tra Stati, nel 2006 aveva infatti statuito sulla vertenza tra Bosnia Erzegovina e Serbia e Montenegro circa l’applicazione della Convenzione sul Genocidio ai fatti di Srebrenica del 1995, concludendo che la Serbia, pur non essendo responsabile dei fatti, aveva violato la Convenzione nel mancare di prevenirli e di consegnare Mladic al TPIY. Il 6 settembre 2013 la Corte Suprema olandese, nelle cause civili mosse da H. Nuhanovic e R. Mustafic, aveva invece determinato la responsabilità del governo olandese (dimessosi nel 2002), per il fallimento dei suoi Caschi blu nel proteggere le persone in fuga da Srebrenica.
Il mosaico, ad un mese dalla chiusura del TPIY, primo organo giudiziario impiegato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu quale strumento di imposizione della pace ai sensi del capitolo VII della sua Carta, si sta lentamente completando.
All’indomani è previsto l’ultimo verdetto del TPIY. I protagonisti sono sei vertici dell’ex Repubblica croata di Herzeg-Bosnia (HB), l’entità autonoma esistita tra il 1991 e il 1994: J. Prlic, ex Primo Ministro e presidente della milizia «HVO» (condannato a 25 anni); B. Stojić, ex capo del Dipartimento della Difesa (20 anni); S. Praljak, ex comandante dello stato maggiore del HVO nonché alto esponente del Ministero della difesa croato; (20 anni) M. Petković, ex comandante del HVO (20 anni); V. Ćorić, ex Capo dell’amministrazione della Polizia militare del HVO e poi Ministro dell’interno (16 anni) e B. Pusić, ex ufficiale della Polizia militare dell’HVO e responsabile dei centri di detenzione (10 anni). L’appello verte sulla loro partecipazione ad un’«Impresa criminale congiunta» costituita nel gennaio del 1993 al fine di ottenere, come indicato dalla Corte, «il dominio dei Croati della Repubblica Croata di Herzeg-Bosnia mediante la pulizia etnica della popolazione musulmana» sui territori rivendicati in Bosnia. Confermate le pene per tutti gli appellanti, nonostante il ribaltamento di alcune conclusioni tratte in prima istanza. Per esempio il Giudice Agius, nel motivare la condanna di S. Praljak, ha spiegato che contrariamente al primo giudizio, l’attacco al ponte di Mostar non era un crimine di guerra in quanto giustificato dalla necessità militare. Inoltre, egli non era responsabile della distruzione di sette moschee a Mostar est. Tuttavia, nel complesso, queste conclusioni non erano tali da ridurre la sua responsabilità per il ruolo avuto nell’impresa criminale.
Come nei suoi film (p.es. Duhan del 1990), Praljak ha quindi diretto, in modo drammatico, l’epilogo del procedimento, ponendo fine alla sua vita. Non appena proclamata la condanna a 20 anni, alzandosi ha solennemente dichiarato «Slobodan Praljak non è un criminale di guerra, respingo con sdegno questa sentenza!», e ha ingerito del veleno. È stato necessario qualche attimo per capacitarsi dell’accaduto. Il pubblico e gli imputati hanno quindi richiamato l’attenzione della Corte, che ha chiamato i soccorsi e interrotto il procedimento. Diffusa l’amarezza tra i Bosniaci-croati presenti, tra cui un giovane che, mostrando un rosario, dice «sono un croato della Herzeg Bosnia; da storico e uomo di scienza, non posso dar credito a questo tribunale politico; confido ormai solo in Gesù Cristo.»
Il processo riprende dopo un’ora in un’altra Aula: il Giudice Agius ha ordinato l’intervento delle autorità olandesi competenti, senza ulteriori commenti.
La mente di chi scrive torna al clima di tensione sovrastante le persone raccoltesi il 22 novembre in Churchillplein, la piazza della capitale olandese dedicata al grande statista britannico, dove ha sede il TPIY.
Tutte, tranne Mladic, sono in attesa del verdetto: per lui, latitante per 16 anni, sei anni dopo l’arresto il 26 maggio 2011, il verdetto potrebbe significare una vita senza futuro.
La lettura è prevista alle 10, ma già nelle prime ore del mattino, lungo Eisenhowerlaan, l’arteria che collega l’Europol con il TPIY, illuminato da timidi raggi si scorge l’avanzare mesto di un corteo. Saranno Serbi? O Bosniaci? Da lontano non è dato sapere e un timore riverente invita al silenzio chi ne incrocia gli sguardi: il conflitto dei Balcani non ha infatti né vincitori né vinti, ma solo feriti che faticano a guarire.
Il Giudice Orie, apre puntuale il sipario. I sostenitori di Mladic sperano nel suo proscioglimento, mentre i sopravvissuti chiedono che la Corte renda loro giustizia. Mladic viene condannato alla reclusione a vita per aver partecipato, insieme a terzi, tra cui Radovan Karadazic, a 4 «imprese criminali congiunte» finalizzate alla commissione di crimini aventi quale fine il genocidio dell’etnia bosniaco-musulmana di Srebrenica; alla pulizia etnica di diverse municipalità della Bosnia rivendicate dalla Republika Srpska; alla presa in ostaggio e all’uso come scudi umani dei Caschi blu dell’Onu a Srebrenica, al fine di prevenire l’intervento della Nato; all’attuazione di una politica del terrore nei confronti della popolazione civile di Sarajevo.
La Corte conferma l’atto d’accusa, ad eccezione dell’imputazione per genocidio riferita a fatti in diverse municipalità e campi della Bosnia. Essa non ha infatti raggiunto il pieno convincimento che gli autori abbiano avuto l’intento «speciale» di eliminare il «gruppo protetto dei Bosniaci musulmani», essendoci tra le vittime anche bosniaco-croati. La qualifica appropriata è di crimini contro l’umanità. Di genocidio si è invece trattato a Srebrenica, dove nel 1995 sono stati uccisi oltre 7000 musulmani.
Mladic non era presente alla lettura del dispositivo (contro il quale è già stato dichiarato il ricorso in appello). L’avvocato Ivetic aveva tentato per un ultima volta di rinviare il verdetto, chiedendo dapprima una pausa per permettere a Mladic di recarsi in bagno. Quasi paradossalmente, l’istanza veniva presentata dopo un resoconto del Giudice Orie delle condizioni a Omarska e Trnopolje, dove i prigionieri potevano recarsi in bagno solo una volta al giorno.
Trascorsa mezz’ora, durante la quale molti si sono chiesti se vi fosse da temere un’uscita di scena di Mladic, il Giudice Orie ha ripreso spiegando che erano stati necessari degli accertamenti sullo stato di salute dell’imputato. Negata l’istanza di procedere subito con il dispositivo, Mladic si è alzato gridando che era tutto falso. Invitato a ritrovare la calma, è infine stato scortato in una sala adiacente da cui seguire il processo.
Questa sentenza ha davvero chiuso un capitolo? Il TPIY ha realmente contribuito a ristabilire la pace nella regione? Per molti resta incomprensibile perché la Corte abbia riconosciuto il reato di genocidio solo in merito a Srebrenica, seppur agendo in coerenza con quanto concluso nella sentenza emessa il 24 marzo 2016 nei confronti di Radovan Karadzic, l’ex presidente della Repubblica serba di Bosnia.
Tra il pubblico c’era anche Fikret Alic, il protagonista della copertina del 17 agosto 1992 di «Time», ritraente un giovane dal corpo emaciato, in piedi dietro al filo spinato delimitante il campo di Trnopolje. A suo avviso, dopo 25 anni, anche se non si può asserire che il TPIY abbia ristabilito definitivamente la pace nella regione, il risultato è sicuramente importante. Egli è tornato a vivere a Prijedor e si ritiene fondamentalmente soddisfatto dell’esito. Dura invece la reazione di Kelima Dautovik: Mladic non è stato condannato per genocidio in merito ai fatti occorsi in varie municipalità della Bosnia. Pertanto, dichiara, non le importa né dell’esito né che Mladic venga incarcerato a vita o esca a piede libero. Ricorda come nella sola città di Prijedor, da cui proviene, sono morte 3800 persone.
Come dimostrato in occasione di una partita disputata il 26 novembre, quando i giocatori della squadra del Kabel Novi Sad hanno indossato le maglie ritraenti Mladic, vi sono ancora molte posizioni contrastanti.
Ma come ricordato dal procuratore Brammertz, l’esito del procedimento contro Mladic costituisce una pietra miliare nella storia del TPIY e per la giustizia penale internazionale. Resta tuttavia ancora molto da fare nella lotta contro i crimini di guerra.
Al rientro, il tram si sofferma nuovamente davanti alla Corte Suprema: «La guerra inizia dove manca la giustizia». La frase invita a non dimenticare il passato, per evitare che gli stessi errori si ripetano in futuro.