A rischio la strategy della May

Brexit – La Corte Suprema britannica deve stabilire se il governo di Theresa May dovrà avere anche l'assenso del Parlamento per avviare formalmente il divorzio dall’Ue e attivare l’articolo 50, come richiesto dell’Alta Corte
/ 12.12.2016
di Cristina Marconi

La Brexit perfetta non deve essere «morbida» o «dura», bensì «rossa, bianca e blu», secondo la premier Theresa May, che si è affidata ad un’immagine – quella di un’uscita dalla Ue che abbia i colori della Union Jack, la bandiera nazionale – per cercare di dare al mondo un’idea di quello che intende fare per dare seguito al voto dei cittadini al referendum del 23 giugno scorso. Ma a parte i colori e il mantra secondo cui «Brexit vuol dire Brexit», i contorni dell’uscita dalla Ue sono ancora indefiniti. «Terrò alcune carte coperte, sono sicura che tutti capiscono che in un negoziato non si rivela tutto quanto», ha spiegato May tentando di far leva sull’argomento del bene del Paese. «È importante che siamo in grado di raggiungere l’accordo giusto per il Regno Unito». 

Un desiderio di riservatezza, quello della May, che non solo deve vedersela con una sentenza dell’Alta Corte che ha stabilito che prima di avviare ufficialmente i negoziati con Bruxelles occorre un voto del parlamento britannico, ma che si è scontrato anche con il rischio di una ribellione dei deputati di maggioranza e opposizione, subito sedato con la promessa di rendere noto un piano d’azione prima di invocare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona. 

Un passo avanti che non sarebbe però sufficiente nel caso la Corte Suprema non accogliesse il ricorso del governo e imponesse un voto sulla Brexit. I giudici hanno ascoltato gli avvocati di Downing Street e quelli del gruppo di cittadini che ha intrapreso l’azione legale in difesa del ruolo del Parlamento dal 5 al 10 dicembre, ma non si pronunceranno prima di gennaio. Nel caso fosse confermata la sentenza dell’Alta Corte, la May dovrebbe consentire alla camera dei deputati e a quella dei Lord di votare su un decreto del governo, con il rischio di aprire un vaso di Pandora di emendamenti e posizioni discordanti non solo da parte dell’opposizione ma – ed è questo il rischio principale per una premier che ha già considerevolmente modificato il manifesto elettorale sul quale il suo predecessore David Cameron è stato eletto – soprattutto da parte degli stessi Tories, da sempre profondamente spaccati in materia di Unione europea. 

Non solo la premier rischierebbe di non tenere fede alla promessa di invocare l’articolo 50 entro la fine di marzo prossimo, ma potrebbe ritrovarsi stritolata tra un parlamento dove la maggioranza dei deputati non vuole una Brexit troppo punitiva e quella parte dell’opinione pubblica che si aspetta un taglio netto dei rapporti con la Ue e soprattutto misure drastiche contro l’immigrazione. E siccome accesso al mercato interno e libera circolazione dei lavoratori sono due aspetti indissolubili agli occhi di Bruxelles, la May sa di doversi muovere con cautela per tenere fede alla sua promessa che «Brexit vuol dire Brexit» senza scadere nell’autolesionismo economico e portare il paese alla deriva. E soprattutto senza finire bruciata come tutti i politici britannici, ultimo dei quali Cameron, che hanno avuto l’ardire di avvicinarsi troppo al dossier europeo.

In un contesto in cui, come ha scritto Janan Ganesh sul «Financial Times», «la premessa anglocentrica» su cui si basa Theresa May è che «il lato britannico dei negoziati ne è la variabile decisiva», dalla capitale Ue arrivano messaggi comprensibilmente risoluti e pressanti. Il negoziatore capo sulla Brexit, Michel Barnier, ha fatto presente che i due anni previsti dal Trattato di Lisbona per l’uscita di un paese dall’Unione non sono tutti da dedicare al negoziato, poiché occorre lasciare il tempo al Consiglio, all’Europarlamento e al Parlamento nazionale di ratificare l’accordo raggiunto. E quindi tra Londra e Bruxelles la partita non dovrebbe durare al di là dell’ottobre del 2018, ossia 18 mesi dall’inizio delle discussioni ufficiali. «È la prima volta che ne sentiamo parlare», ha spiegato un portavoce di Downing Street commentando la scadenza indicata da Barnier, che ha anche fatto presente che nessuno degli accordi che potrà essere raggiunto presenterà tanti vantaggi quanto l’essere parte della Ue. Questo viene «con diritti e doveri» e «i paesi terzi non possono avere questi diritti e doveri», ha spiegato Barnier, che ha aperto la strada ad un possibile periodo di transizione dopo la chiusura del negoziato, ma ha ribadito che di «cherry-picking», ossia di selezione delle politiche europee più congeniali a scapito delle altre, non si parla.

Un dilemma che il governo non ha escluso di poter risolvere pagando per l’accesso al mercato interno, secondo quanto spiegato dal ministro per la Brexit, David Davis, ex falco diventato improvvisamente più conciliante davanti ai preoccupati appelli dell’industria britannica. «Il criterio principale è di ottenere l’accesso migliore possibile per i beni e i servizi al mercato europeo», ha spiegato, suscitando un immediato rafforzamento della sterlina. Barnier ha osservato che la possibilità espressa da Davis esiste – «è uno dei modelli più vicini all’essere nella Ue senza essere membro» – ma si può ottenere solo grazie ad un «contributo predeterminato e molto specifico al bilancio europeo». Con la May che ha più volte ribadito che non vuole la libera circolazione dei lavoratori anche se questo significa perdere l’accesso al mercato interno, i termini di questo scambio con Bruxelles restano tutti da vedere, visto che per ora si è al muro contro muro. E anche se le danze non sono ancora ufficialmente iniziate, la sensazione, secondo il direttore del Centre for European Reform, Charles Grant, è che questo negoziato non sia nelle mani di «diplomatici nati». 

A sei mesi dal voto sulla Brexit, le spaccature interne al Paese non si sono risanate, ma solo sedate per via di una situazione economica che ancora non ha mostrato segni di affanno. A distrarre c’è anche uno scenario internazionale fluido e imprevedibile che ha stemperato lo shock per il risultato referendario in altri, più imprevedibili, sconvolgimenti. L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca è il primo della lista, ma anche il referendum italiano, con il successo di un partito euroscettico come i Cinque Stelle, ha dato molto da pensare ai commentatori britannici. Sul piano nazionale Theresa May non può trascurare neppure i segnali che sono giunti dalle elezioni suppletive di Richmond, quartiere più che benestante di Londra, dove la Libdem Sarah Olney ha soppiantato il deputato Tory euroscettico Zac Goldsmith e quasi cancellato dalla mappa il candidato laburista esponendo il programma apertamente anti-Brexit di cui il partito liberaldemocratico si è fatto portavoce. «La Union Jack rappresenta un Regno Unito aperto, tollerante e multiculturale, non la visione ottusa di Ukip e di Farage», ha spiegato Tim Farron, leader LibDem, formazione europeista in netto recupero dopo il coma politico seguito alla disastrosa esperienza nel governo di coalizione tra il 2010 e il 2015.

Sebbene la retorica anti-immigrazione dell’estate scorsa sia stata un po’ sfumata, il tema continua a rimanere incandescente. Il ministro degli Interni Amber Rudd, la stessa che aveva suggerito che le aziende fornissero delle liste dei loro dipendenti stranieri, ha annunciato che ci sarà una carta d’identità speciale per i cittadini europei autorizzati a restare nel Regno Unito. Tra economia interna stabile e mondo esterno in subbuglio, ci sono state abbastanza distrazioni da permettere alla May di tenere «le sue carte vicino al petto», almeno per il momento. Ma la Corte Suprema è solo uno dei fattori che potrebbe costringerla a rivelarle: quale che sia la strada scelta per uscire dall’Unione europea, il Regno Unito non può pensare di andarsene alla chetichella.