Il sostantivo «populismo» è stato scelto come la parola dell’anno in Spagna, nello scorso dicembre, dalla Fundéu Bbva (Fundación del Español Urgente), un’istituzione creata dall’agenzia di stampa spagnola Efe e dalla banca Bbva con il compito di sondare la qualità della lingua spagnola nei mezzi di comunicazione di massa. La scelta è stata così motivata dal coordinatore di Fundéu, Javier Lascuráin: «Nell’anno della Brexit, della vittoria elettorale di Donald Trump negli Stati Uniti e di diversi fenomeni plebiscitari in America e in Europa, questa parola ha cambiato il suo connotato neutro ed è diventata un’arma da utilizzare nella battaglia politica».
La parola impazza infatti nel dibattito politico spagnolo tanto quanto in quello del resto d’Europa. Ma con una interessante particolarità: in Spagna, a differenza che altrove, non esiste l’affermazione elettorale di un partito politico populista di destra, tantomeno di estrema destra, come avviene per esempio in Francia con il Front national.
In Spagna il fenomeno politico di successo più recente ad affermarsi con tratti populisti è stato Podemos, partito che ha la caratteristica di radicalizzarsi su posizioni della sinistra massimalista classica ritinteggiata con toni anticasta ed antiestablishment.
A differenza del populismo dei movimenti antiestablishment del resto d’Europa, il populismo di Podemos risulta premiato nell’urna dai giovani mediamente istruiti dei centri urbani e non dagli abitanti meno istruiti delle aree rurali, che di solito sostengono altrove i partiti di destra radicale. I suoi elettori si dicono favorevoli all’immigrazione e alla permanenza della Spagna nell’Unione Europea. Dal 2015 Podemos ha governato le città di Madrid e di Barcellona e alle ultime politiche, nel giugno del 2016, ha ottenuto il 21 per cento. Meno di quanto si aspettava dopo l’alleanza con Izquierda unida, la sinistra classica, ma si è comunque imposto ormai come il terzo partito di Spagna.
Esiste un suo clone di destra, è Ciudadanos. Ma il suo successo è stato risicato al confronto, limitato anche dall’offensiva molto efficace lanciatagli contro dal partito di centrodestra tradizionale spagnolo, il Partido popular (Pp), che compete per lo stesso bacino di elettori.
Esiste una seconda creatura politica populista e di destra. Si chiama Vox. L’ha fondato Santiago Abascal, un ex del Partito Popolare. Abascal ha fatto la voce grossa imitando Donald Trump e Marine Le Pen: chiusura delle frontiere, guerra al multiculturalismo, intolleranza e aggressività come modalità con cui combattere il politicamente corretto. Abascal ha anche preso in prestito lo slogan di Trump per la corsa alla Casa Bianca, «Make America great again» e l’ha fatto diventare: «Hacer España grande otra vez» («Far tornare grande la Spagna»). Ma gli è andata meno bene che a Trump. Alle ultime politiche, quelle del giugno del 2016, s’è inchiodato allo 0,2%. Un fulgido esempio di leader populista molto poco popolare.
Anche rispetto all’europeismo la Spagna costituisce un’eccezione. Nonostante molte misure di austerity siano state accompagnate, come in Italia e come in Grecia, dalla motivazione «ce lo chiede l’Europa, sono i burocrati della Ue ad imporceli», tutti i sondaggi mostrano che gli spagnoli rimangono tra i più europeisti in Europa.
Perché in Spagna il populismo di destra e l’antieuropeismo non sfondano? Eppure lì gli ingredienti economici e sociali considerati il terreno di coltura di fenomeni politici di destra populista esistono come esistono altrove in Europa.
C’è stata una crisi economica molto pesante. La situazione non è più quella drammatica del 2008. Anzi, l’economia sta ripartendo. Ma molte persone sono rimaste per strada. La disoccupazione non è certo bassa, 19 per cento, una delle più alte di Europa. L’immigrazione ha numeri molto alti e non accenna a calare. Eppure, a guardare i risultati elettorali, sembra che il disagio creato in alcuni settori sociali dalla combinazione di questi fattori sia stato in Spagna capitalizzato politicamente a sinistra, più che a destra. Ne hanno tratto giovamento Podemos, che per un soffio non ha sorpassato il Partito socialista, e il centrodestra tradizionale, ossia il Partido popular, non i fenomeni politici sorti a destra della destra classica.
Il disagio economico e sociale è stato affrontato dai partiti (populisti e non) con la proposizione di soluzioni di sinistra (populiste e non), non di destra. E la scelta ha premiato elettoralmente chi l’ha fatta. C’è da dire che in Spagna lanciare strali contro l’Europa appellandosi alla retorica nazionalista non funziona per una caratteristica inestirpabile: il regionalismo è fortissimo. Baschi e catalani, più di un terzo della popolazione, rifiutano qualsiasi retorica nazionalista, la considerano un giogo, molti di loro sognano semmai l’indipendenza da Madrid. Ed anche nelle regioni in cui i movimenti indipendentisti non sono così forti come sono nei territori baschi, l’identità politica è legata al regionalismo, non al nazionalismo. Questo ha permesso al Partido popular, in questo momento al governo, di riuscire a rimanere il partito di riferimento della destra conservatrice classica grazie anche a un messaggio molto forte di difesa dell’unità della Spagna, elemento caratterizzante dell’elettorato di destra spagnolo, compreso quello di simpatie franchiste.
La dittatura è finita nel 1975 con la morte di Francisco Franco, ma la transizione alla democrazia è stata completata soltanto alla fine degli anni Settanta. Il ricordo ancora vivo della dittatura ha reso difficile per la destra radicale ricorrere ai suoi cavalli di battaglia più efficaci: il nazionalismo e l’identità nazionale. Suona terribilmente impopolare in Spagna dire: la Spagna agli spagnoli. Rivolta le viscere dei settori progressisti che identificano la retorica nazionalista con il simbolo della dittatura. Ed equivale a dichiarare guerra all’identità politica di baschi, catalani e persino andalusi. Un pessimo affare in termini elettorali.