Il 20 gennaio Donald Trump ha giurato a Washington Dc, in Campidoglio, davanti al presidente della Corte Suprema John Roberts Jr. Il giuramento su due Bibbie, una appartenuta al presidente Abramo Lincoln (la stessa su cui aveva giurato Obama) e l'altra regalata a Trump da sua madre all'età di 9 anni, è stato seguito dal suo discorso di insediamento


A forza di odiare Trump

Società divisa – Social media e stampa americani, che hanno criticato il linguaggio di Trump contro Hillary, oggi riversano lo stesso trattamento nei confronti del figlio Barron, rischiando alla fine di assomigliargli
/ 30.01.2017
di Giulia Pompili

«Barron Trump ha il diritto di essere un bambino come tutti gli altri», e quindi di essere difeso, ha scritto Chelsea Clinton su Twitter riferendosi alla tempesta di commenti ironici e derisioni che si era abbattuta dai social network contro l’ultimogenito di Donald Trump. Durante la cerimonia d’inaugurazione della nuova Amministrazione americana, il ragazzo era sembrato particolarmente annoiato e in alcune fotografie era stato immortalato con un’espressione piuttosto assente. In poche ore, mentre le donne americane sfilavano per le città di diversi stati con i cappellini rosa e rivendicando il proprio ruolo in società, Barron (nella foto) era diventato un meme, un archetipo, il figlio ricco e annoiato di un miliardario che merita la pubblica gogna. Il commento di Chelsea Clinton, figlia dell’acerrima nemica di Trump, Hillary, e (forse ex) amica intima di Ivanka Trump, aveva riportato un po’ di calma nelle fila dei liberal clintoniani, scatenati contro Barron.

Poco prima Katie Rich, autrice del «Saturday Night Live», aveva addirittura twittato che Barron avrebbe potuto essere il primo First shooter americano, facendo riferimento al ruolo di figlio del presidente e al drammatico problema degli omicidi di massa nelle scuole. Sospesa dal suo programma, la Rich ha fatto poi pubblica ammenda chiedendo scusa per la battuta troppo audace, perfino per lei, autrice di un programma che non era mai stato tenero con il presidente eletto.

L’incidente di comunicazione legato a Barron Trump è la cartina di tornasole del momento complicato che sta attraversando la società americana. Mentre il presidente sembra quasi ossessionato dal numero di persone che hanno partecipato alla sua cerimonia d’insediamento – un problema di autoaccettazione, di riconoscimento di un voto plebiscitario a suo favore, dicono gli analisti – d’altra parte il colorato e confuso corteo di donne (e uomini) che ha sfilato lo scorso il 20 gennaio e che per gli organizzatori, nelle varie città, ha mobilitato più di tre milioni di persone, non ha fatto che sottolineare una contraddizione: più i democratici tentano di allontanarsi da Trump, più finiscono per assomigliargli. La tentazione dei media mainstream è quella di sentirsi moralmente superiori rispetto a un leader caricaturale, che potrebbe mentire o mente in modo spudorato, che parla di «fatti alternativi» quando l’etichetta giusta sarebbe quella di fake news: «La stampa potrebbe essere tentata – e di gran lunga ricompensata – da una sorta di opposizione isterica, un’imitazione in stile tabloid di Trump e del suo disprezzo per la verità», ha scritto la scorsa settimana Ross Douthat, columnist del «New York Times».

L’indignazione permanente può essere utile, a volte, ma rischia di far perdere di vista l’obiettivo politico, che è l’opposizione costruttiva. Douthat cita il sito web d’informazione americano «Buzzfeed», il primo ad aver pubblicato il dossier sulle relazioni tra Donald Trump e la Russia di Putin, quello del «kompromat»: un report di cui si parlava da tempo a Washington ma mai pubblicato da nessun altro prima proprio perché «non verificato» e non verificabile. Quel tipo di giornalismo e quel sistema di diffusione delle notizie non verificate (fatti alternativi?) è lo stesso che ha aiutato Donald Trump a vincere le elezioni.

Con la vittoria del candidato repubblicano l’8 novembre scorso, la sinistra per la prima volta nella storia americana ha messo in discussione il risultato delle elezioni e la legittimità del processo elettorale stesso. Il riconoscimento della sconfitta era invece fino a poco tempo fa una delle caratteristiche peculiari della moralità del sistema democratico statunitense, e l’espressione «non è il mio presidente» pareva quasi una blasfemia. 

Nel 1980 Jimmy Carter già alle 2 del mattino post elettorale accettò la sconfitta da parte del candidato Ronald Reagan, dicendo che l’America aveva fatto la sua scelta. Tradizionalmente, quando un presidente lascia la Casa Bianca, consegna al successore una lettera in cui viene espressa la più sincera fiducia nella democrazia americana. Così ha fatto Bill Clinton con George W. Bush, e così ha fatto Bush con Barack Obama («Hai un paese intero che ti sostiene, compreso me»). La lettera che l’ultimo comandante in capo ha lasciato a Donald Trump, per qualche motivo, non è stata pubblicata alla stampa e «la terremo per noi», ha detto il presidente. È il segno dei tempi: la dignità e l’eleganza di un presidente non è più motivo di orgoglio per il popolo americano, che preferisce accapigliarsi sugli sbadigli di un bambino di dieci anni – ma, giustamente, mai avrebbero accettato una sola battuta sulle figlie della coppia principesca degli Obama.

«Facciamo un esempio. Se un democratico liberale fosse stato eletto presidente e i repubblicani avessero organizzato una manifestazione, avrebbero avuto così tanta copertura da parte della stampa?», si domandava giorni fa Matt Lewis sul «Daily Beast»: «Proprio come Obama ha mandato fuori di testa i conservatori, Donald Trump sembra spingere i suoi avversari sull’orlo della follia». Tra di loro, molte celebrità. Per esempio Madonna, che offrì sesso orale agli elettori di Hillary durante la campagna elettorale e qualche mese dopo era sul palco della più grande manifestazione per la dignità della donna mai organizzata su suolo americano. O l’urlo dell’attore Shia LaBeouf, che con il suo collettivo artistico ha messo in piedi un’installazione di protesta che sarà attiva sempre, fino alla fine del mandato di Trump. Si chiama «He Will Not Divide Us», lui non ci dividerà. Il problema, però, è che l’America sembra ormai irrimediabilmente divisa da una sindrome di superiorità e arroganza che ha ben poco di politico.