A Conte fatti

Italia – All’esterno del Belpaese è percepibile l’apprensione per le imperscrutabili prospettive del governo rappresentato da Salvini-Di Maio
/ 11.06.2018
di Alfredo Venturi

Ho accettato l’incarico «con umiltà e determinazione». Il presidente del consiglio Giuseppe Conte presenta il suo governo ma soprattutto se stesso al Senato della repubblica. Al suo debutto sulla scena politica chiede che il «governo del cambiamento» sia sorretto dalla fiducia parlamentare. La fiducia è scontata, ma il suo obiettivo personale non è dei più facili. Il presidente scaturito dallo psicodramma che ha occupato i tre mesi successivi al voto del 4 marzo vuole dimostrare all’Italia e al mondo che il governo Salvini-Di Maio di cui si parla è in realtà il governo Conte. Eppure la topografia protocollare sembra stringerlo in una morsa, mentre parla i due vicepresidenti, il leghista e il cinquestelle, gli siedono accanto, uno da una parte e uno dall’altra. Il capo dell’esecutivo sembra Pinocchio fra i due carabinieri. Con un discorso un po’ più grillino che leghista, Conte argomenta la sua fedeltà al «contratto» negoziato fra i due partiti della maggioranza e ne riprende sommariamente i punti chiave.

Ironizza sull’accusa ricorrente: populisti? Se questo vuol dire ascoltare i bisogni della gente, allora lo siamo. Ma razzisti no, non lo siamo e non lo saremo mai. E rafforza il concetto esprimendo il suo cordoglio per la morte di Sacko Soumayla, un bracciante africano ucciso a fucilate in Calabria, per il quale finora nessuno del nuovo regime ha speso una parola. A proposito di profughi, «metteremo fine al business dell’immigrazione» cresciuto sotto «il mantello della finta solidarietà». Accarezza un altro tema caro a Salvini: potenzieremo la legittima difesa. Al tempo stesso prova a rassicurare alleati e soci: l’Europa «è la nostra casa», e come fondatori la vogliamo più forte «ma anche più equa». Inoltre non sono in discussione l’appartenenza all’alleanza atlantica né lo stretto rapporto con gli Stati Uniti. Al tempo stesso, aggiunge toccando un sensibilissimo nervo internazionale, «siamo fautori di un’apertura verso la Russia e di una revisione delle sanzioni». La Nato ovviamente reagisce e avverte: le sanzioni restano fino a quando Mosca non avrà cambiato le sue politiche.

Conte insiste su un’immagine che già aveva proposto al momento di assumere l’incarico: sarò l’avvocato che tutela gli interessi del popolo italiano. Per esempio assicurando ai più bisognosi reddito o pensione di cittadinanza, introducendo la flat tax a due aliquote fisse, combattendo le mafie, riducendo i costi della politica, snellendo le procedure giudiziarie, mandando in galera i grandi evasori, sanando le ferite dei terremoti, abbassando l’età pensionabile e tagliando le pensioni più alte. Sono le misure elencate nel contratto che sta alla base della strana alleanza fra i leghisti, votatissimi nel Nord produttivo che invoca riduzioni fiscali, e i cinquestelle, che hanno fatto incetta di consensi nel Sud della disoccupazione di massa dove si attendono generose sovvenzioni di denaro pubblico. Salta agli occhi il contrasto fra l’impronta liberista della Lega e le tentazioni stataliste dei grillini, per questo qualcuno parla di alleanza contro natura.

Il calendario politico rende particolarmente nervose queste diverse aspettative: Conte presenta il suo governo pochi giorni prima dell’ennesimo appuntamento con le urne: più di sette milioni e mezzo di cittadini chiamati a votare in 761 comuni, con i vincitori del 4 marzo in cerca di conferme e gli sconfitti ansiosi di battere un colpo e risalire la china. Risente di questo clima da campagna elettorale permanente anche il fervore con cui Salvini ha salutato la «nostra vittoria» a Lussemburgo, dove erano riuniti i ministri dell’interno dell’Unione Europea. Lui non c’era a causa dell’impegno parlamentare ma è rimasto in stretto contatto. Si discuteva la riforma delle regole di Dublino sull’accoglienza e l’asilo. La proposta della presidenza bulgara è stata bloccata da un assortito fronte del no: da una parte Italia e Spagna, dall’altra il gruppo di Visegrad: Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia. Diverse le motivazioni: i primi contestavano i vincoli che la bozza lasciava a carico dei paesi di primo approdo, i secondi ribadivano la loro contrarietà a ospitare quote di migranti. Contraria anche la Germania nel timore di conseguenze insostenibili per i paesi mediterranei. Dunque la proposta bulgara è caduta e per quanto diversamente motivati gli anti-sistema hanno festeggiato. Con Viktor Orban, aveva annunciato Salvini dopo essersi consultato con il campione ungherese del fronte anti-migranti, cambieremo le regole europee.

Non è la prima dichiarazione sopra le righe del neo-vicepresidente. Confermando la volontà di combattere il fenomeno migratorio, Salvini se la prende con la Tunisia, dove s’imbarca una buona parte dei migranti, lamentando che «spesso ci manda galeotti». La Tunisia, che è uno dei paesi con i quali l’Italia ha concluso accordi per il controllo dei flussi, e sulla base di questi accordi riceve un’ottantina di rimpatriati alla settimana, reagisce con durezza, chiedendo chiarimenti e convocando l’ambasciatore italiano. Soltanto più tardi Salvini corregge il tiro parlando di citazione fuori contesto e dicendosi pronto a incontrare l’omologo tunisino. La gaffe suscita vivaci polemiche da parte delle molte opposizioni, dal Partito Democratico fino a Forza Italia, che dopo avere affrontato il voto del 4 marzo alleata con la Lega rifiuta la fiducia al governo di cui la Lega è uno dei pilastri. Sulle mosse di Salvini pesa la promessa con cui aveva affascinato le platee leghiste: rimanderò a casa cinquecentomila clandestini!

I primi passi del nuovo governo confermano alcune facili previsioni. Da una parte l’irruente Salvini, uomo di comizi e di slogan, fatica a calarsi nei panni istituzionali di ministro. Per poter gestire personalmente lo scottante tema degli immigrati ha voluto la nomina all’interno, ma ha subito dimostrato di non essere a suo agio con l’impegnativa necessità della mediazione. Dall’altra parte Di Maio, che ai suoi elettori soprattutto del Sud ha promesso drastici provvedimenti in materia di welfare e di occupazione e per questo ha voluto la poltrona di ministro del lavoro e dello sviluppo, deve cercare le risorse che dovranno finanziare i suoi costosissimi propositi. Già la flat tax, cara soprattutto ai leghisti, è stata parzialmente rinviata: l’anno prossimo riguarderà soltanto le imprese (ma per le imprese già esiste!, fanno notare i critici, si chiama Ires...), quanto alle famiglie se ne riparlerà nel 2020. In ogni caso costerà una fortuna: dove trovare i fondi?

Dall’Unione Europea e da molte capitali arrivano a Conte messaggi di augurio e offerte di collaborazione, ma è chiaramente percepibile l’apprensione internazionale per le imperscrutabili prospettive dell’Italia e del suo governo. Il debito alle stelle, i programmi privi di copertura, la propensione a guardare verso Est, al gruppo di Visegrad con il suo esplosivo potenziale anti-europeo, alla Russia di Vladimir Putin che si vorrebbe partner privilegiato, all’Austria guidata da una maggioranza accesamente conservatrice e anti-migranti che parla di asse Roma-Vienna: tutto questo apre scenari confusi e fa temere che molte questioni irrisolte saranno sempre meno facilmente risolubili. Intanto Steve Bannon, l’ex consigliere politico di Donald Trump travolto dal vorticoso turnover alla Casa Bianca, parla di Roma come «centro della politica mondiale», mentre il «New York Times» definisce spaventoso (awful) il nuovo governo italiano e a Bruxelles si fanno scongiuri e si raccomanda continuità. Ma come si può pretendere continuità dal governo del cambiamento?