importanti si assiste alla stessa pantomima: in un primo momento, Facebook nega di svolgere un ruolo nella manipolazione del consenso pubblico che circola sulla sua piattaforma, ribadisce di non avere nessuna intenzione di censurare i contenuti generati dagli utenti, rifiuta il fact checking sui messaggi politici e non vieta la pubblicità elettorale a pagamento, in nome della libertà di espressione del pensiero, del diritto dei candidati meno noti a farsi conoscere e con l’idea che basti raccogliere in un’apposita library tutte le campagne pubblicitarie dei politici per garantire all’utente la conoscenza, la trasparenza e la correttezza del processo.
Quando poi si ricorda dei disastri del 2016, in Gran Bretagna, in America e in Italia, ma anche altrove, in termini di violazione della privacy, di ingerenza straniera e di diffusione di fake news, il social network di Mark Zuckerberg è costretto inesorabilmente a fare marcia indietro, prima oscurando gli account degli spacciatori di notizie false, poi raddoppiando il fact checking sui temi sensibili e infine smantellando i network di disinformazione russa e iraniana e rifiutando le campagne pubblicitarie dei candidati alle elezioni, come da tempo già deciso dai concorrenti Twitter e Google (e YouTube).
Il problema, però, è che Facebook prova a porre rimedio sempre troppo tardi e con interventi poco incisivi, tanto che adesso, dopo mesi in cui ha lasciato diffondere sulla piattaforma bugie, falsità e teorie cospirative sui brogli commessi dai democratici per defenestrare Donald Trump, si preoccupa dei possibili disordini sociali che potrebbero crearsi in caso di vittoria elettorale di Joe Biden.
Zuckerberg e i suoi hanno quindi cominciato a valutare in modo attento vari scenari, pare addirittura ottanta, preoccupati seriamente dalle ricorrenti dichiarazioni trumpiane sui brogli e, in particolare, dal rifiuto del presidente di rispondere alla domanda se accetterà o meno un pacifico trasferimento dei poteri in caso di sconfitta il 3 novembre.
Una frase pronunciata da Trump durante il primo dei due duelli televisivi con Biden ha fatto scattare l’allarme, per la verità non soltanto tra i dirigenti di Facebook, ma in tutto il Paese: «Fermatevi e aspettate», aveva detto Trump rivolto alle milizie di estrema destra, i Proud Boys, che in quei giorni avevano minacciato di usare la violenza per difendere il presidente in caso di sconfitta elettorale certamente dovuta alla frode degli avversari.
Facebook si è così decisa a prendere provvedimenti, vedremo in seguito quanto efficaci, per evitare che i candidati, ma in realtà uno solo dei due, Trump, possano usare la piattaforma per manipolare il risultato elettorale e indirizzare in modo pericoloso per la democrazia americana gli eventi successivi.
Dopo aver disattivato le pagine Facebook e gli account Instagram dei gruppi che aderiscono a QAnon, una setta di fuori di testa trumpiani convinti che ci sia un complotto del deep state, della burocrazia statale, contro il presidente, Facebook ha promesso di agire con risolutezza davanti ai post dei gruppi che invitano a non votare per tenere lontani dalle urne i potenziali elettori democratici (tra marzo e settembre ne sono stati rimossi oltre centoventimila, ma pare siano solo una piccola parte di una precisa strategia di dissuasione al voto).
Attenzione particolare, e blocco immediato, anche per chi mobilita i propri militanti ad organizzarsi per controllare lo spoglio dei voti, «se usano linguaggio bellico o lasciano intendere che l’obiettivo sia quello di intimidire elettori o scrutatori». Di nuovo, cose che il mondo trumpiano lascia circolare, via social network, da mesi.
A urne chiuse, invece, Facebook vieterà di comprare post a pagamento, estendendo il divieto già fissato per la settimana precedente il 3 novembre. Sulle bacheche di tutti gli utenti Facebook e Instagram, poi, comparirà un avviso che spiegherà che – fino a quando le testate giornalistiche serie, Reuters e Associated Press, non dichiareranno in modo ufficiale il vincitore delle elezioni – tutte le notizie su chi ha vinto non dovranno essere considerate credibili (un passo indietro, però, rispetto all’annuncio iniziale di reindirizzare i link sulla vittoria prematura di Trump ai siti della Reuters e di Associated Press).
Non è detto che questi provvedimenti saranno sufficienti a evitare i temuti disastri elettorali e post elettorali, ma c’è comunque una bella differenza tra il riconoscimento del problema e del ruolo di Facebook e la completa rimozione dello stesso che nel 2016 portò Zuckerberg a dire che era semplicemente folle pensare che la sua creatura avesse avuto un ruolo nell’alterare il risultato elettorale.
Sulla base di quella rimozione, Facebook ha continuato per anni a ignorare il problema fino a quando, di concerto con la comunità di intelligence, è stata costretta prima a fermare le interferenze straniere, e adesso a svegliarsi dal torpore. Speriamo bene.