La storia ama ripetersi, come insegnava Giambattista Vico. Ecco una conferma di stretta attualità: nel 1997 il Protocollo di Kyoto, al termine della terza Conferenza delle parti sul clima, impegna i governi a ridurre le emissioni responsabili dell’effetto serra in quantità definite per ogni paese. Gli Stati Uniti dovrebbero abbassarle del sette per cento in dieci anni ma il Protocollo, firmato dal presidente democratico Bill Clinton, non viene ratificato dal Congresso, per essere poi definitivamente respinto nel 2001 dal repubblicano George W. Bush. E così il presidente texano, il secondo della dinastia dei Bush, stabilisce un precedente.
Con vichiana esattezza lo schema si ripropone una quindicina di anni più tardi: ecco un presidente democratico, Barack Obama, che smentendo il predecessore sottoscrive il nuovo accordo varato a Parigi nel 2015 e un successore repubblicano, Donald Trump, che brutalmente lo getta alle ortiche. Precede i due voltafaccia climatici un altro precedente: poco meno di un secolo fa gli Stati Uniti non vollero far parte di quella Lega delle Nazioni che proprio il presidente Woodrow Wilson aveva caldeggiato.
Della necessità di controllare il clima impazzito si parla ormai da venticinque anni, da quel giugno 1992 in cui i rappresentanti di 172 paesi riuniti a Rio de Janeiro in quello che fu chiamato il «vertice della Terra» decisero che la misura era colma. Finalmente l’allerta degli scienziati aveva raggiunto l’orecchio fin qui distratto dei governanti: l’effetto serra sta surriscaldando il pianeta, un delicato equilibrio si va rompendo, i ghiacciai si sciolgono, cicloni devastanti si avvicendano, il livello delle acque si alza e vaste aree costiere rischiano di finire sommerse. La causa è la nostra ingombrante presenza, l’umanità che tratta il pianeta senza riguardi, in particolare avvelenando il cielo con le combustioni di carbone e petrolio.
Per scongiurare il peggio la soluzione è una sola: ridurre le emissioni che provocano l’effetto serra, dunque bruciare il meno possibile combustibili fossili, puntare sull’energia prodotta dalle cascate, dal vento, dal sole, dalle maree, dall’idrogeno. Il quarto di secolo seguito all’intesa di Rio conferma come i fatti si discostino facilmente dalle belle parole, dagli impegni solenni, dalle facili promesse.
Da Rio a oggi si sono celebrate sotto l’egida dell’Onu ventidue Conferenze delle parti, e mentre i valori dell’inquinamento atmosferico continuavano a peggiorare la comunità internazionale ha fatto qualche timido passo avanti. Dopo Kyoto, fra i più importanti quello compiuto a Durban nel 2011: per ridurre le emissioni non più semplici raccomandazioni, ma accordi vincolanti. Questo impegno è alla base dell’accordo di Parigi che Trump ha clamorosamente sabotato. Raggiunto il 12 dicembre 2015, firmato alcuni mesi più tardi a New York dai capi di Stato e di governo di 195 paesi, è entrato in vigore nel novembre 2016 dopo la ratifica di 55 paesi, responsabili di almeno il 55 per cento delle emissioni.
L’impegno è ambizioso: contenere il riscaldamento medio entro i due gradi, possibilmente un grado e mezzo, rispetto ai livelli precedenti la rivoluzione industriale. Due gradi è la misura oltre la quale il mondo scivolerebbe verso la catastrofe. Si tratta di stabilire obiettivi di riduzione dei gas a effetto serra e verificarne l’attuazione ogni cinque anni a partire dal 2023. L’accordo impegna inoltre i paesi ricchi a varare entro il 2020 un fondo di cento miliardi di dollari destinato ad aiutare gli Stati in difficoltà.
A Parigi si perfeziona un risultato politico di estrema importanza, l’adesione di Stati Uniti e Cina. I due giganti dell’economia sono i massimi produttori di gas nocivi, fin qui piuttosto restii a impegnarsi nel controllo climatico. Purtroppo il cambio della guardia a Washington ha annullato l’adesione americana. Bizzarrie del calendario: lo scorso sette novembre comincia a Marrakech la ventiduesima conferenza delle parti, che dovrà elaborare le modalità di realizzazione dell’accordo di Parigi. I delegati non possono sapere che proprio il giorno dopo gli elettori americani spediranno alla Casa Bianca l’uomo che porrà un formidabile ostacolo sul cammino del salvataggio planetario.
Non lo può sapere nemmeno la delegazione americana: sulla scia dello slancio ecologista di Obama è tra quelle che s’impegnano a raggiungere l’obiettivo delle «zero emissioni» nel 2050. Marrakech rinvia alla ventitreesima conferenza, in programma a Bonn il prossimo autunno, e alla ventiquattresima che si terrà in Polonia nel 2018, il compito di perfezionare i meccanismi di applicazione dell’accordo.
La bomba della defezione americana esplode proprio quando sembrava rimossa la controversia che per anni ha frenato ogni progresso. Si fonda sull’asimmetria fra il mondo sviluppato, che ha raggiunto i suoi livelli di benessere lasciando che si accumulassero i veleni della crescita industriale, e i paesi ancora impegnati nelle fasi iniziali dello sviluppo, che dunque sono riluttanti ad accettare sacrifici. Proprio da questo nascono i programmi di compensazione: i paesi sviluppati aiuteranno gli altri a far fronte alla sfida. Ora ci si chiede che cosa accadrà dopo l’annuncio di Trump che per quanto previsto (ne aveva fatto uno dei cardini della campagna elettorale) ha gettato il resto del mondo nella costernazione. I paesi dell’Unione Europea fanno sapere che non defletteranno dagli impegni di Parigi, così la Cina e l’India, fra i massimi inquinatori.
C’è incertezza sulle conseguenze pratiche del gran rifiuto di Trump. Lo svincolo dal trattato richiede quattro anni, ma gli Stati Uniti potrebbero interrompere subito ogni forma di collaborazione con le parti impegnate nel controllo climatico. Il presidente ha già adottato misure di rilancio dei combustibili fossili, come la riapertura di alcune miniere di carbone o la costruzione del grande oleodotto dall’Alaska al Golfo del Messico, che Obama aveva bloccato. Trump è portatore di una visione decisamente obsoleta: più minatori, più petrolio, meno investimenti sulle energie del futuro. Per quanto riguarda gli altri paesi, si teme che il perdurare di situazioni di crisi possa distogliere risorse dalla riconversione attraverso le fonti alternative. Inoltre la decisione americana comporta un vantaggio concorrenziale per i produttori degli Stati Uniti, che avranno a disposizione più energia «sporca» a buon mercato.
Fortunatamente l’America non è certo compatta alle spalle del suo controverso presidente. I governatori di New York, California e Washington, una trentina di sindaci compresi quelli delle metropoli maggiori, un’ottantina di università e un centinaio di imprese si sono mobilitati per concordare con le Nazioni Unite la possibilità di rispettare, nonostante Trump, i vincoli negoziati a Parigi. Alla testa di questo movimento di resistenza ecologista l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg: secondo lui i singoli Stati dell’Unione, le grandi città e le imprese potrebbero, votandosi alle energie alternative, permettere agli Stati Uniti di raggiungere ugualmente gli obiettivi negati dalla Casa Bianca. Ma al momento non esiste una normativa che estenda oltre la dimensione statale la possibilità di agire a livello di Nazioni Unite. Intanto Bloomberg annuncia che la sua fondazione intende versare all’agenzia Onu per il controllo climatico quattordici milioni di dollari. È la quota che sarebbe toccata agli Stati Uniti per il prossimo biennio.